Tirava un’aria cupa ieri a Londra e Bruxelles. Perché il significato più evidente del voto che ha riportato Trump alla Casa Bianca non era ancora chiaro. Formidabile la sintesi che ne ha fatto Dugin, ideologo di Putin, con un’impeccabile analisi sul presente, sul passato e sul futuro degli equilibri politici tra Regno Unito, Europa e Stati Uniti: “I globalisti hanno perso la loro battaglia”.

Il mondialismo, da ieri, sembra un retaggio sfuocato di un’epoca lontana e l’addio non risparmia nessuno. Né gli europei né, tanto meno gli inglesi, questi ultimi fino ad ora alleati privilegiati degli USA: gli americani hanno votato per l’America e per chi, a discapito dei paradossi, offriva maggior garanzia. Non è solo la retorica MAGA ad aver vinto. Neppure la sua presunta presa sulla parte rurale e più periferica del paese o il miraggio di una non facile ripresa economica. È il nazionalismo americano, l’America first, ad aver fatto breccia nell’orgoglio degli statunitensi, di ogni estrazione e origine. In primo luogo, nel cuore delle donne che hanno scelto il nuovo leader, nonostante le sue ombre e i processi. Così come i latinos e i neri e la gran parte degli immigrati che si sentono americani. Nonostante le promesse di nuovi muri e rimpatri forzati.

Altro dato su cui riflettere. Il messaggio è chiaro: quella di Trump è una “americanexit”. Il neopresidente farà solo gli interessi dell’America e l’America non ha paura del mondo ma pensa a sé stessa, d’ora in poi. Una pietra tombale sulla retorica dell’impero americano, dell’Occidente unito nonostante l’Oceano, del grande ideale delle democrazie liberali planetarie, delle alleanze privilegiate unite da un solo idioma. Il sogno proposto da Trump è un sogno tutto americano. I due Occidenti non sono mai stati così lontani come ora. In questo quadro, la sberla più forte è arrivata forte e chiara al neo-governo laburista di Starmer che d’ora in avanti sarà ancora più solo e dovrà scegliere se è maggiore la distanza che lo separa dalle coste americane o dal porto di Calais.

Senza alleati d’oltreoceano e con la spina nel fianco della neoleader conservatrice Kemi Badenoch, nazionalista tanto quanto il presidente americano, l’ipotesi di un riavvicinamento all’Unione europea sarebbe auspicabile, ma resta una prospettiva fragile. I conservatori inglesi, incoronandola alla guida, sembra avessero fiutato l’aria di questo nazionalismo di ritorno. Nonostante le evidenti differenze, le sue posizioni pro Brexit sono chiare. Così come la sua radicale opposizione alle derive dell’ideologia woke.

Su questi terreni si muoverà all’unisono con Trump chiudendo a tenaglia ogni afflato internazionalista del governo laburista inglese. Ma non è detto che questo basti a riportare verso queste sponde lo sguardo interessato del neopresidente. Per la nuova amministrazione americana, l’Inghilterra resta un prezioso alleato ma forse niente di più. Perlomeno finché i laburisti siederanno a Downing Street o finché i conservatori non torneranno a guidare il paese.

Stefano Bettera

Autore