La responsabilità
Startup Act: o si fa la storia con investimenti e visione, o l’Italia è condannata a fare da comprimaria tra pizza, sole e mandolino
Fino a che non si comprenderà che quando si parla di Startup Act si intende un diffuso processo di ricerca e sviluppo ad altissimo potenziale utile a favorire le condizioni per la nascita di Corporation italiane da billion euros competitive a livello globale, si sarà capito poco o nulla di quale componente strategica esso sia per il Paese. L’Italia ha tutte le competenze e le capacità di essere una Startup Nation a livello globale. Diciamo in premessa che lo Startup Act esiste in Italia nella sua forma attuale grazie ad interventi normativi del governo Monti, prima, e poi del governo Renzi che diede ad esso la forma di sistema che ha ormai da oltre una decade.
Si può sempre migliorare, ma semmai bisognerebbe assicurare investimenti e visione strategica. Fare altro insomma. Cioè, tutto quello che questa bozza di riforma non fa. Essa è trattata esclusivamente dal ministero delle Imprese e del Made in Italy, senza alcun processo di integrazione in seno alla PdCM, che pure ha deleghe in tema di Innovazione Tecnologica con un Sottosegretario. Ciò detto, su questa bozza che gira che nessuno con onestà intellettuale può chiamare davvero Startup Act, mi limito qui a dire soltanto due cose nel merito. L’idea di alzare il capitale sociale è una nuova barriera all’ingresso, dopo che de facto si è resa inattuabile la norma sul capitale ridotto dal quando si è reintrodotta l’obbligatorietà di Atto notorio per le costituzioni societarie. Un atto costitutivo può costare 2.500 euro che (a volte il caso) è esattamente pari a un quarto di quei 10mila euro di capitale sociale che oggi è obbligatorio versare per costituire. Con la bozza, questo minimo rischia di essere 5mila euro. Questo elemento fa comprendere quanto si ignori chi siano e chi debbano essere gli startuppers, giovani talenti con una buona idea in testa e con le tasche vuote. Come è giusto che sia.
L’altro aspetto ridicolo è che non si capisce come una corporate qualsiasi, che magari ha fatto rendita di posizione per decadi con modelli di business e prodotti old style, possa improvvisamente iscriversi al registro delle startup innovative. Così, cambiando pelle. Senza un reale e stringente criterio di valutazione. L’approccio sinora adottato non è adatto a una riforma di questa portata, questo è il tema. La sola soluzione possibile per uno Startup Act degno di questo nome è quella di assicurare sempre, e a qualsiasi livello decisionale, un approccio sistemico al tema. E in un paese mediamente normale dove un Governo volesse affrontare impianti normativi di tale impatto, in genere ascolta chi lavora in quel ecosistema da decadi. Semplicemente, perché competenza ed esperienza non si improvvisano.
Come, ad esempio, è accaduto in Francia. Dove c’è un vero Startup Act con una visione strategica di lungo periodo e dove ci sono investimenti pubblici – per favore, non chiamiamoli sussidi! – che valgono oltre 40 miliardi di euro per un flusso annuale per i prossimi dieci anni di 4 miliardi all’anno. Sono convinto, per queste ragioni, che in queste ore sia necessario bloccare questo processo di riforma nel suo iter deliberativo e mettere il legislatore nelle condizioni di comprendere a fondo il tema che si sta accingendo a normare. Il Governo ha la responsabilità di prendere decisioni nell’interesse del paese per poter generare processi virtuosi per i prossimi dieci anni su temi cruciali in G20 agenda setting. Oppure può relegare l’Italia a ruolo di comprimario nel mondo. Solo pizza, sole e mandolino. Ma l’Italia è molto di più.
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