Stati Uniti e Regno Unito d’accordo sul sostegno all’Ucraina, ma distanti su Israele: le differenze tra Biden e Starmer sulle armi
Lo sguardo oggi sull’America è necessariamente strabico. Da una parte gli echi del dibattito tra Donald e Kamala (e le scioccanti ipotesi su ciò che potrebbe avvenire dopo il voto) e dall’altra le azioni e le decisioni del presidente in carica Joe Biden, che nella sua lieta solitudine si trova davanti a scelte dense di conseguenze come la questione dei missili a lungo raggio che gli ucraini vorrebbero usare per colpire le basi di lancio dei missili russi e che Putin ha indicato come casus belli. Per ora ha prevalso il no, con cupa frustrazione di Kiev, perché l’Ucraina si sta giocando la pelle dei suoi uomini e donne.
Intermezzo: Joe Biden per alleggerire la tensione mediatica si è prodotto in un fraterno scambio di berretti con un elettore di Trump, col berretto rosso e la scritta Maga (Make America Great Again). Come dire: io cerco di smorzare la temperatura, fatelo anche voi o qui finisce malissimo. Non si tratta di un episodio di colore, perché l’America è talmente divisa da non poter tollerare civilmente la vittoria sia dell’uno che dell’altra candidata. Trump ripete che una sua sconfitta può essere soltanto frutto di una frode elettorale (come il 6 gennaio 2020) e questo è il motivo per cui ha rifiutato un nuovo dibattito con la Harris: perché lui si è da solo dichiarato vincitore, “E soltanto chi è andato al tappeto chiede una rivincita. Io ho già vinto e non concedo una rivincita alla perdente”. Questo è uno dei motivi per cui l’amministrazione sta predisponendo gigantesche misure di polizia cui l’America non è abituata. Ma il loro sistema elettorale funziona bene soltanto se la vittoria di un candidato è netta. Ma è possibile, e l’abbiamo già visto, che un candidato vinca il voto popolare ma perda la Casa Bianca a causa del sistema dei delegati. Inoltre, i sondaggi dicono che più della metà della popolazione è armata e sostiene di essere pronta a combattere per difendere Costituzione da due opposti punti di vista.
Mentre angosce e profezie affollano il futuro, la Storia va avanti e Joe Biden prende scelte non sempre molto decise sui due campi di battaglia, Ucraina e Medio Oriente. E lo fa insieme al nuovo primo ministro inglese Sir Keir Starmer, che è socialista ma anche un intransigente su temi dell’immigrazione illegale e ordine pubblico, con un passato da pubblico ufficiale di giustizia duro e puro. I due, Biden e Starmer, vanno d’accordo sul sostegno all’Ucraina ma non su Israele. Starmer ha ridotto la quantità e la qualità di armi che il Regno Unito fornisce ad Israele “affinché non vengano usate in modo ostile agli aiuti umanitari”. Antony Blinken, segretario di stato americano, a nome sia proprio che del Presidente, su questo punto ha rotto l’intesa con Londra dichiarando che “siamo d’accordo sul fatto che le organizzazioni umanitarie vadano protette e ci rivolgiamo al governo israeliano affinché abbia attenzione e massimo rispetto, ma non siamo d’accordo nel far mancare il sostegno a Israele. Anche perché – ha aggiunto Biden – mentre da mesi discutiamo delle armi a Israele, nel frattempo Hamas seguita a compiere i delitti più efferati senza trovare ostacoli”. Si direbbe dunque che, uscita Kamala Harris dalla Casa Bianca con le sue posizioni più filopalestinesi, Biden non abbia più alcuna intenzione di processare Israele, anche se continua a perorare la causa di un’ improbabile tregua con Hamas. Il pugno di ferro di Netanyahu per ora vince malgrado l’ira del partito dei parenti degli ostaggi che avrebbero voluto soltanto azioni miliari o diplomatiche per riavere i propri cari. Anche la Harris nel suo scontro con Trump ha mostrato di aver corretto la sua posizione, dichiarando solidarietà a Israele.
E poi c’è la questione ucraina. Dopo quasi tre anni la guerra è cambiata ed il mondo è cambiato: il rischio di un conflitto mondiale non è poi così diverso da quello del settembre 1939 quando Hitler invase la Polonia e con recalcitrante riluttanza Francia e Inghilterra dichiararono formalmente guerra alla Germania, ma senza sparare un colpo per mesi. La famosa buffa guerra o drôle de guerre. Hitler era molto sorpreso quando seppe delle dichiarazioni e chiese: “Ma francesi e inglesi fanno sul serio? Per me è solo una messinscena”. La fine è nota ma poi non tanto, visto che le generazioni, e la loro memoria invecchiano e svaniscono insieme alle lezioni della Storia. Putin ha detto che se americani e inglesi autorizzassero gli ucraini a usare i missili a lungo raggio di fabbricazione occidentale, lui considererebbe una tale decisione come un atto di guerra della Nato contro la Russia e lui reagirebbe con bombe atomiche. I missili in questione sono gli Storm Shadow inglesi e gli Atacms americani. Da notare che gli ucraini, nel frattempo, con le loro armi hanno già colpito il Cremlino con due droni e stanno mettendo a punto il loro missile a lunga gittata.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky preme moltissimo su Washington e Londra perché l’opinione pubblica del suo paese è stanca di guerra e nel prossimo anno si dovranno tenere le nuove elezioni. Nota a margine: Zelensky si sente logorato e teme di perdere le elezioni. Donald Trump se non fosse eletto perderebbe le immunità che gli ha concesso la Corte Suprema e andrebbe in galera per le sue numerose condanne. E Bibi Netanyahu è accusato dall’opposizione di tirare per le lunghe la guerra per non trovarsi sotto processo. Nessuna delle tre ipotesi è certa né giustificata, ma sono parte attiva dello scenario. Anche di Putin si dice che sia diventato fragile e vulnerabile al Cremlino, ma per lui vale quel che diceva Giulio Andreotti e cioè che “il potere logora chi non ce l’ha”. Ma ci sono dei fatti che Zelensky ha annunciato di voler portare personalmente a Biden con un suo “piano di vittoria”. Negli ultimi giorni il pallido americano Blinken e l’imponente e nero ministro degli esteri inglese David Lammy hanno viaggiato continuamente in Ucraina, nell’Europa dell’Est e in Medio Oriente, uniti nel proteggere Kiev ma distanti su Israele per la questione delle armi. Tutte queste prospettive, allucinazioni e stati di minaccia e panico – oltre alle voglie di vittoria e di castigo – vanno ad accumularsi sulla bianca magione di Pennsylvania Avenue, mentre Kamala e Donald si danno battaglia sui social. Ma le sorti del mondo sono, per la parte occidentale, nelle mani dell’opalescente Biden, il quale parla con tutti, cerca di rinviare. Il futuro americano poggia su tre ipotesi: se la Harris vincesse di poco, alla Casa Bianca andrebbe Trump per via del conteggio dei delegati.
Se Trump vincesse, i democratici hanno pronto un apparato legale per contestare ogni vittoria di Trump Stato per Stato, e l’esito sarebbe comunque incerto nel caso in cui le contestazioni finissero alla Corte Suprema, in cui Trump ha la maggioranza dei giudici – come si è visto nei casi in cui la Corte ha sentenziato sull’aborto e sulle immunità. Ed è già al lavoro uno stuolo di avvocati per portare davanti al Congresso mozioni di denuncia dei favoritismi pro-Trump della Corte Suprema. E se – come tutta l’Europa spera – Kamala Harris dovesse vincere in maniera netta e clamorosa, sembra molto difficile che Trump possa riconoscere la sua vittoria e tutto il fronte del Maga è pronto a gridare alla cospirazione, con i rischi di tumulti di cittadini armati convinti di esercitare i diritti garantiti dal secondo emendamento della Costituzione. Il Republican National Committee ha già pronte più di cento file di avvocati per portare in tribunale il maggior numero possibile di contestazioni elettorali, seguendo lo slogan trumpiano “Stop the steal”, piantatela di rubarci la vittoria.
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