Iran e Stati Uniti non vogliono una guerra. Ma intanto l’escalation c’è ed è un banco di prova decisivo per il presidente Joe Biden così come per il sistema di potere iraniano. Washington ha studiato per diversi giorni tutte le opzioni per rispondere all’attacco in cui la scorsa domenica sono morti tre soldati americani di stanza in Giordania. Secondo Cbs News, il Pentagono sarebbe pronto ad attaccare per più giorni diversi obiettivi legati a Teheran: tanto in Iraq quanto in Siria. I “target” riguardano la rete iraniana in Medio Oriente e non l’Iran stesso, considerato da Biden il vero “responsabile” dietro la strategia della tensione.

Il concetto è stato espresso anche dal segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, che ha confermato l’esistenza di “piani a più livelli” con cui si concretizzerà la risposta americana al raid di domenica. Reazione che potrebbe prevedere anche “molteplici attacchi”. “Il nostro obiettivo è contenere la crisi a Gaza e stiamo impedendo che le cose si allarghino in un conflitto più ampio. C’è molta attività nella regione, ma c’è sempre stata”, ha detto Lloyd Austin, che ha anche lanciato di nuovo l’allarme sul rischio di “un conflitto totale tra Israele e Hezbollah in Libano”. “Noi non siamo in guerra con l’Iran”, ha inoltre sottolineato il capo del Pentagono. E questo è un ulteriore segnale del fatto che le forze armate Usa, di concerto con la Casa Bianca, vogliono definire bene le linee per limitare l’escalation che sta attraversando l’intero Medio Oriente.

Le milizie sciite dell’Iraq e della Siria, intanto, aspettano che su di loro si abbatta la vendetta del Pentagono. Kataib Hezbollah, principale formazione irachena del cosiddetto “Asse della Resistenza islamica”, ha sospeso da giorni gli attacchi annunciando una sorta di stop tattico alle schermaglie con gli Usa. Ma intanto, tutte le fazioni legate all’Iran lavorano per capire come ridurre i danni di quella che appare come una reazione certa e potenzialmente dura da parte degli Stati Uniti. Ieri, intanto, si è tornato a incendiare il Mar Rosso, altro settore bollente del Medio Oriente. L’Autorità britannica per il commercio marittimo ha segnalato nel pomeriggio un “incidente” avvenuto a 57 miglia nautiche a ovest di Hodeida, nello Yemen. Nelle 24 ore precedenti, inoltre, gli Stati Uniti hanno comunicato di avere colpito una decina di droni e una stazione di controllo a terra degli Houthi che “rappresentavano una minaccia imminente per le navi mercantili e le navi della Marina americana nella regione”.

Dopo i bombardamenti chirurgici statunitensi e dopo la rivendicazione di un altro raid degli yemeniti contro un mercantile americano, è tornato a parlare anche il leader della milizia sciita, Abdul Malik Badr al-Din al-Houthi. Il capo di quella che è ormai una fazione protagonista del Medio Oriente ha detto in un discorso trasmesso in televisione che “gli attacchi americani e britannici sono un fallimento, non hanno alcun effetto e non limiteranno le nostre capacità militari”, e che “uno dei segnali di fallimento è il tentativo degli Usa di chiedere alla Cina una mediazione con l’obiettivo di convincerci a fermare le nostre operazioni che sono a sostegno del popolo palestinese”. La frase del leader Houthi non è certamente casuale, ma si rivolge a quel canale diplomatico segnalato da alcune settimane tra Washington e Pechino affinché quest’ultima prema su Teheran per far sì che suggerisca (o ordini) alla milizia dello Yemen di fermare un’escalation che mette a rischio il commercio globale.

Sui media cinesi, in particolare sul tabloid Global Times, è apparso nei giorni scorsi un articolo che ricordava la sinergia tra la Repubblica popolare cinese e il governo dello Yemen, evidenziando come Pechino possa avere un ruolo maggiore e sempre più importante nella crisi che ha investito il Paese arabo e le rotte del Mar Rosso. La Cina, quale superpotenza commerciale, ha un forte interesse a evitare che la tensione in quelle acque metta un freno alle rotte che uniscono Mediterraneo e Oceano Indiano, e quindi anche gli scali dell’Estremo Oriente. Ma l’interesse cinese è anche diplomatico, dal momento che proprio sotto la sua benedizione si è assistito al disgelo nelle relazioni tra Arabia Saudita e Iran: due potenze che hanno avuto proprio nello Yemen uno dei principali elementi di crisi.

Tutto questo avviene mentre nell’epicentro della crisi mediorientale, cioè a Gaza, la guerra prosegue così come i negoziati per porvi fine. Il governo israeliano valuta la riduzione degli aiuti come strumento di pressione nei confronti di Hamas, che ancora ha in mano gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. L’obiettivo è raggiungere il prima possibile un accordo su tregua e liberazione degli ostaggi, per riportare a casa i sequestrati e ridurre le operazioni militari. Mentre la Casa Bianca ha lanciato un nuovo segnale di irritazione imponendo sanzioni contro i coloni israeliani che in Cisgiordania si sono resi protagonisti di violenze contro i palestinesi.