Mentre la guardia libica, cofinanziata anche dall’Italia, spara e uccide migranti che tornano disperati da un viaggio verso il nulla – notizia che resta, salvo benemerite eccezioni, nel fondo oscuro dei giornali – il governo decide sulla continuazione dello stato d’eccezione – chiamato “emergenza” per giocare a nascondino con le parole – lo stato in cui è il “sovrano” (e che sovrano!) a decidere, cosa contraria alla Costituzione della Repubblica che viene così violata. Fino al 15 ottobre, per ora, il Parlamento sarà di fatto (e spesso di diritto) escluso da ogni discussione e decisione effettiva, come detto dalla presidente del Senato in una dichiarazione che in altri tempi sarebbe stata una bomba politica, mentre oggi cade nell’irrilevanza e nel silenzio. E questo accade proprio nei mesi nei quali si devono decidere cose che toccano il destino futuro dell’Italia nel contesto di una Unione che cambia, tema quanto mai altri spinoso.
Quest’ultimo rilievo, lungi dall’aggiungere qualche ragione sulla necessità dello stato d’emergenza, porta scritto in fronte la necessità di una profonda partecipazione democratica alle decisioni da prendere, mai così destinate a toccare il futuro della nostra società. Ficcare tutto questo in un sacco cieco che si chiama ”emergenza”, mentre si decide la data per il referendum contro il Parlamento, è il segno di una classe dirigente (si fa per dire, mi scuso con il vocabolario, usando a vanvera parole che posseggono tutto un altro senso) che si candida, come ha fatto da tempo, a diventare la padrona della gestione della crisi più grave che la Repubblica abbia attraversato dal dopoguerra. Siccome si esclude, allo stato degli atti, ogni lockdown, ogni motivo per una emergenza sanitaria, giacchè nulla di ciò è in vista, l’emergenza tocca solo le gestione economico-sociale e politica della crisi, un effetto diabolico che solo l’Italia ha deciso in questa direzione – limitando tra l’altro, possibilità di una più libera ripresa- tutti gli altri paesi presentandosi con i caratteri propri delle democrazie politiche che dichiarano l’emergenza solo quando è in atto.
Questa eterna anomalia italiana oggi si manifesta in modo clamoroso con un governo presieduto dallo stesso presidente che dirigeva l’opposta maggioranza fino alla settimana prima, tema ormai ingoiato, e anzi esaltato, nelle fauci incallite del Partito democratico e di Italia viva ed annessi, il fondo rovesciato e grillizzato di una sinistra una volta capace di pensare. I protagonisti di questa vera vergogna nazionale (mai verificatasi altrove) osano chiedere poteri d’emergenza, ovvero quei pieni poteri che furono all’origine dello scandalo finale che condusse alla crisi il vecchio governo Conte-Salvini-Di Maio. Roba che si stenta a trovar le parole per raccontare. Si badi: non mi va cadere nella formula “governo liberticida”, anche quando alcune libertà personali possano essere intaccate nell’emergenza, ma non mi pare questo il punto.
Emergenza qui vuol dire soprattutto mani libere sul governo della crisi e sui progetti per organizzare il recovery fund, ovvero per decidere sul futuro di una Italia indebitata fino al collo, già prima in declino di produttività, con una burocrazia assillante e balbuziente, una giustizia politicizzata, con il contorno di un vociare politico dominato dal grillismo a tutti i livelli, come mai prima. Un grillismo un po’ nascosto dietro il pimpante Conte, astuta ameba affabulante, buona a ogni uso. Insomma, un pastrocchio indicibile in un momento in cui solo una grande personalità, dotata di assoluta esperienza e neutralità, potrebbe prendere in mano la situazione. Emergenza può significare questo, senza che questa scelta modifichi l’equilibrio tra i poteri messi in radicale discussione dall’attuale gestione della cosa pubblica, con un presidente del Consiglio non parlamentare, ma sgorgato dal nulla, da qualche casuale incontro di corridoio. Essere magari voce quasi solitaria nel deserto (ma Sabino Cassese non dice molto di diverso almeno sulla critica dell’emergenza) non implica dover tacere, anzi.
L’Italia, salvata, al Consiglio europeo, dall’incontro tra Merkel, Macron e Rutte, grandi fondi rigorosamente controllati per evitare il fallimento di una nazione che “non può” fallire, non mette Conte sul trono, secondo vulgata corrente. Per agire e decidere, si dovrebbe chiedere la collaborazione non dell’ennesima task force, ma degli eletti e delle istituzioni che li ospitano e li sorreggono aprendo un dibattito vero e grande nella società.