Il processo
Stato-mafia nasconde la verità sulle stragi
Silvio Berlusconi ieri ha fatto scena muta davanti alla Corte d’appello che dovrà decidere le sorti del processo sulla famosa trattativa Stato-Mafia. Era stato convocato come testimone, e la sua testimonianza sarebbe probabilmente servita a Marcello Dell’Utri per tirarsi fuori dalla trappola dove l’hanno infilato i Pm. Lui però ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Perché aveva questa facoltà? Perché recentemente la Procura di Firenze gli ha spedito un avviso di garanzia per le stragi del 1993 e per l’attentato fallito a Maurizio Costanzo. Berlusconi a questo punto si trova a essere sotto accusa in un procedimento giudiziario che riguarda delitti connessi al processo di Palermo. Il fatto che entrambi i processi siano del tutto strampalati non cambia le cose. Essendo i due processi collegati, Berlusconi ha la facoltà di non presentarsi come testimone, e ieri ha dichiarato che i suoi avvocati lo hanno consigliato di fare così. Il suo avvocato è Franco Coppi, che conosce bene questa materia e conosce anche i magistrati che se ne occupano: evidentemente ha immaginato che in questo momento per Berlusconi sia più opportuno evitare deposizioni. Naturalmente non esiste neppure una persona sola nell’intero mondo che creda che Berlusconi possa avere avuto qualcosa a che fare con quegli attentati, e in particolare con quello al suo amico Costanzo, che in quel periodo era oltretutto un pilastro delle sue televisioni. Però la giustizia, si sa, è così: burocratica, burocratica, burocratica. E di conseguenza ritiene che sia un indizio sufficiente una frase smozzicata pronunciata da un boss in carcere (Graviano) intercettata durante un colloquio con un altro detenuto e intercettata dai magistrati (poi si è saputo che Graviano sapeva di essere intercettato, e tutto quel che diceva lo diceva per qualche ragione). Graviano disse: «Berlusca mi ha chiesto un piacere». Dal punto di vista degli inquirenti l’inverosimiglianza assoluta dell’affermazione, e la totale assenza di riscontri non valgono niente. La mancata deposizione di Berlusconi, però, danneggia Dell’Utri. Il quale è accusato di avere fatto da tramite tra Cosa Nostra e Berlusconi in questa benedetta e molto improbabile trattativa Stato-Mafia. L’ipotesi dell’accusa è questa: la mafia aveva deciso di attaccare lo Stato per poi trattare. Uccise Lima (deputato andreottiano), poi Falcone, e Borsellino, nel 1992, e l’anno successivo realizzò gli attentati che provocarono stragi a Firenze, a Milano e anche a Roma, dove provò – sbagliando – a uccidere Maurizio Costanzo e Maria de Filippi. La mafia – sostiene l’accusa – chiese al governo, in cambio della pace e della fine dell’attacco militare, una serie di concessioni, tra le quali soprattutto la fine del 41 bis. Dell’Utri, secondo l’accusa, fece da intermediario tra la mafia e il premier Berlusconi. Però c’è un problema di date, e poi un problema di fatti. Le date: gli attentati finiscono il 23 gennaio del 1994, quando per un errore (o forse per un ripensamento) non salta la bomba che avrebbe ucciso decine di carabinieri allo Stadio Olimpico, pochi minuti prima della partita Roma-Udinese. Dicevamo: 23 gennaio. A quel punto evidentemente la trattativa si conclude perché gli attentati cessano. Però Berlusconi andò al governo solo quattro mesi più tardi, e nessuno, in gennaio – proprio nessuno – poteva nemmeno immaginare che avrebbe vinto le elezioni a primavera. Tutti erano certi della vittoria di Occhetto. È strano chiedere delle misure di tipo legislativo a un imprenditore che non ha mai messo piede in Parlamento.
La seconda contraddizione riguarda i fatti. Quando Berlusconi andò al governo non prese nessuna misura di allentamento della lotta alla mafia, non cancellò il 41 bis anzi inasprì tutte le misure.
Se ciò non vi basta ancora, tenete conto di un altro elemento di questa storia che lascia davvero molto perplessi. Oltre a Dell’Utri sono accusati di avere guidato la trattativa Stato-Mafia tre ufficiali dei carabinieri. Il più famoso è Mario Mori. Che mentre la trattativa – secondo i giudici – era in corso con Totò Riina, cosa fece? Arrestò Riina. Negoziato più bislacco di questo non poteva essere immaginato. E allora come stanno le cose? Beh, è chiaro un po’ a tutti che il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e l’ipotesi che questa trattativa sia stata il motivo per il quale furono uccisi Falcone e Borsellino (i quali peraltro furono uccisi quando la prima Repubblica appariva ancora ben salda e Berlusconi in politica non era neppure un fantasma) sono un processo e un’ipotesi di quelli che a Roma si definiscono “una bufala”. Non stanno in piedi neanche coi cerotti, anche se fin qui hanno già prodotto una condanna in primo grado, alla quale è giunta una giuria popolare spinta da una gigantesca campagna di stampa, e hanno rovinato la vita a molte persone, alcune delle quali – come il generale Mori – sono tra i pochi ad avere dato gran parte della loro vita alla lotta strenua alla mafia. Quelli che non sono chiarissimi a tutti sono gli effetti di questo gigantesco depistaggio. Gli effetti sono che è stato calato un velo sulla vera indagine che Falcone e Borsellino stavano conducendo, servendosi del lavoro di Mori e della sua squadra; era un’indagine, che aveva un’ampiezza impressionante e stava per svelare i rapporti tra la mafia e un pezzo molto consistente del mondo imprenditoriale italiano (ma in quel pezzo di mondo non c’era Berlusconi). Si tratta del dossier mafia-appalti, che era stato promosso da Falcone, realizzato da Mori, e che sarebbe stato ereditato da Borsellino se Borsellino non fosse stato ucciso nel luglio del ’92. Tre giorni prima della sua uccisione i Pm di Palermo chiesero l’archiviazione del dossier, e l’archiviazione venne ratificata il 14 agosto. Tutto questo è raccontato dettagliatamente nel fotoromanzo curato da Giovanna Corsetti, che pubblichiamo oggi in prima e seconda pagina e che pubblicheremo ancora nei prossimi giorni. Ecco spiegato il processo Stato-Mafia. Che sicuramente è stato voluto dai Pm per altri motivi, ragionevolissimi, ma che alla fine (così come il depistaggio del pentito Scarantino, che aveva accusato delle persone non colpevoli dell’uccisione di Borsellino, guidato, a quanto pare, da uomini dello Stato) è servito solo a depistare, a impedire che si scoprisse perché e chi aveva ucciso Borsellino e a seppellire un’indagine su mafia e imprenditoria che avrebbe sconvolto l’Italia.
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