Se la storia della diplomazia mediterranea – ristrutturata da Gianni De Michelis – e dell’influenza italiana sul mondo arabo moderato – dovuta a Bettino Craxi – dovesse oggi guardare al futuro parlando attraverso un esponente della maggioranza, non potrebbe trattarsi che di Stefania Craxi. La presidente della Commissione Difesa e Affari Esteri del Senato, esponente di Forza Italia dal 1994, non delude: «Altroché ritiro di Unifil: vogliamo compiti operativi. E Israele ci chieda piuttosto una mano nel dare la caccia ai terroristi, noi siamo pronti».

Unifil deve rimanere? E il contingente italiano deve rimanere? A quali condizioni? Non è chiara a tutti la funzione, le regole di ingaggio di una missione costosa e impegnativa come quella…
«Sono convinta che occorre restare. Qualsiasi scelta diversa smentirebbe un impegno che si protrae da decenni e non potrebbe che essere letta come l’ennesima debolezza, un disimpegno definitivo della comunità internazionale dalla regione, in un frangente in cui al contrario c’è bisogno di un maggiore protagonismo. Ricordiamoci, però, che non è una scelta che compete all’Italia, non parliamo di ritiro delle truppe italiane, ma di una missione internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, a cui spetta ogni decisione».

Come vedrebbe un ripensamento dell’impegno del contingente italiano con le Nazioni Unite, non più di sola interposizione ma nel dare la caccia ai terroristi nei tunnel, in Libano come a Gaza?
«Personalmente in modo molto favorevole. Dobbiamo abbandonare una certa ipocrisia diffusa che ha fatto molti danni, e chiamare le cose con il loro nome. Lì si combatte una guerra: mi sembra del tutto necessario, ancorché logico, aggiornare prima gli obiettivi e, di conseguenza, le regole di ingaggio che allo stato sono del tutto inadeguate al contesto. Non da oggi, ma da mesi, il Governo italiano sollecita l’Onu ad un cambio di registro su questo tema. Gli uomini di Unifil devono poter agire e rispondere, non essere spettatori in balia degli eventi. E la stessa Israele dovrebbe incoraggiare un simile impegno, anziché richiedere il ritiro dei militari».

Il Libano è una groviera. La Siria una polveriera. Gaza è terra di nessuno ormai da anni. Manca una politica multilaterale forte sul Medio Oriente?
«Il tema è più complesso, proprio perché riguarda il sistema internazionale nel suo insieme e le sue regole di funzionamento. Molti parlano di multipolarismo imperfetto, ma io credo che si debba parlare di multipolarismo disfunzionale. Siamo in presenza di una crisi complessiva del sistema onusiano, non c’è una minima intesa su come gestire le sfide presenti e quelle future. Le stesse istituzioni multilaterali, dal Consiglio di sicurezza in giù, vivono una crisi drammatica che rispecchia le contraddizioni del nostro tempo. Proprio per questo è necessario mettere mano a un progetto di riforma sensato e inclusivo, che consenta all’Onu di recuperare quella funzione che da tempo non esercita più».

La preoccupa l’asse Iran-Russia? Quell’asse, appena certificato dall’incontro tra Putin e il presidente iraniano, sta dietro alle forniture militari che colpiscono in Ucraina come in Israele?
«Nelle diverse aree del globo si sono formate e si vanno consolidando tutta una serie di alleanze tra realtà, magari anche storicamente non affini, che debbono preoccuparci e debbono preoccupare l’intero Occidente. Quella tra Mosca e Teheran è la più evidente, ma purtroppo non la sola. Lo scambio di forniture militari sull’asse Iran-Russia è poi certificato, nonostante le smentite. Proprio in queste ore l’Unione europea ha giustamente deciso di imporre nuove sanzioni contro Teheran per la consegna di missili balistici a Mosca».

A Teheran sta cambiando l’aria. Hezbollah e Hamas possono trascinare il regime in una crisi interna?
«Il regime è debole. Per ragioni interne ancor prima che esterne. Non dimentichiamo le impiccagioni dei mesi scorsi. Non a caso, è il primo a temere un conflitto diretto con Israele, non solo per l’urto militare che ciò significherebbe ma per gli inneschi sulla resistenza interna repressa. Non a caso lo stesso Netanyahu gioca questa carta e incoraggia la popolazione iraniana a ribellarsi agli “oppressori” del regime, promettendo un futuro di prosperità e di pace per i due antichi popoli. La guerra si gioca anche su questo terreno».

Tra tre settimane il nuovo presidente Usa. Chiunque sarà, potrà generare un effetto domino e predisporre una nuova gestione dei dossier Ucraina e Medio Oriente?
«Non mi aspetto grandi sorprese, ma piuttosto, al di là del vincitore, una rinnovata assertività statunitense. Se qualcosa cambierà nell’approccio ai diversi dossier sarà soprattutto sul fronte ucraino, meno su quello mediorientale, tenendo sempre in debito conto che le Amministrazioni americane degli ultimi anni, al di là di alcuni approcci retorici, si sono mosse su un piano di sostanziale continuità sul fronte internazionale».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.