Le spicciole polemiche quotidiane penalizzano il dibattito politico italiano, che già deve fare i conti con l’assenza di una «visione di lungo termine ma spesso anche di medio» da parte della politica. Stefano da Empoli – presidente dell’Istituto per la Competitività – punta il dito verso coloro che negli ultimi anni avrebbero avuto la possibilità di agire da veri statisti, guardando alle prossime generazioni, ma che poi hanno «perso il biglietto della lotteria che avevano in mano». Le continue divisioni ideologiche nel nostro paese di certo non aiutano: l’assalto contro il Jobs Act «rispecchia l’incapacità del dibattito pubblico italiano di giudicare sulla base dei fatti»; gli allarmi lanciati sul ritorno del fascismo a causa del premierato sono «prova di assoluta malafede». Così si rischia di fallire le vere sfide cruciali, dal nuovo Patto di stabilità alla riforma della burocrazia passando per il rapporto fisco-contribuenti. Insomma, una discussione matura fatica a trovare spazio e i riformisti sono chiamati a non mollare la presa per non arrendersi alle facili narrazioni di pancia.

Il riformismo è la risposta al malessere sociale, ma in Italia fatica ad affermarsi. Gli elettori preferiscono interventi spot piuttosto che norme strutturali a medio-lungo termine?
«Non sono certo le colpe possano essere date interamente all’elettorato ma quel che è sicuro è che la politica italiana vive di troppe polemiche del giorno, spesso su questioni del tutto simboliche o comunque irrilevanti per le prospettive concrete del nostro paese. Manca del tutto una visione di lungo termine ma spesso anche di medio. Il famoso detto attribuito a De Gasperi, che in realtà lo riprese dal teologo statunitense James Freeman Clarke, che gli statisti guardano alla prossima generazione mentre i politici alle prossime elezioni in realtà presenta una visione fin troppo lusinghiera della Seconda Repubblica, nella quale nessuna coalizione di governo è stata fin qui confermata dalle urne. Al massimo si aspira a mangiare il panettone, schivando gli scogli della Legge di Bilancio o le tante altre mine che si nascondono appena sotto il mare increspato della politica italiana. I pochissimi politici italiani che negli ultimi decenni avrebbero avuto la chance di guardare alle prossime generazioni, perché oltre ad avere almeno in nuce la stoffa dello statista contavano su coalizioni unite o godevano di elevata popolarità, hanno invariabilmente perso il biglietto della lotteria che avevano in mano. Da Segni nei primi anni Novanta a Renzi nello scorso decennio passando naturalmente per Silvio Berlusconi».

Il Jobs Act era il fiore all’occhiello della vecchia stagione del Pd. Parliamo di circa 10 anni fa, mentre oggi i dem si adoperano con la Cgil per abolirlo. È uno schiaffo al riformismo?
«Ancora oggi gli economisti dibattono sui reali effetti del Jobs Act ma praticamente nessuno contesta il fatto che abbia avuto un qualche impatto positivo. Certamente, al di là del suo valore effettivo, che probabilmente fu aumentato di molto al tempo dalla quasi contemporanea decontribuzione per le nuove assunzioni, ha rappresentato un elemento di riformismo di fronte a un mercato del lavoro che si è evoluto di molto rispetto a quello sul quale era intervenuto nel 1970 lo statuto dei lavoratori. Piuttosto, si dovrebbe discutere su come cambiare ulteriormente le norme sul lavoro per adeguarle ai tempi attuali. Pensiamo ad esempio ai platform workers, che evidentemente non possono essere incasellati né tra i lavoratori dipendenti né tra quelli autonomi ma più complessivamente ai rapporti tra imprese e collaboratori che non sono più rappresentabili con la logica binaria del conflitto di classe tipico delle lotte operaie del secolo scorso. Ecco perché mi aspetterei che il Pd andasse semmai oltre il Jobs Act piuttosto che alla rincorsa del passato».

L’occupazione continua a crescere, soprattutto quella stabile. Eppure è passata la narrazione secondo cui il provvedimento avrebbe creato precariato. Perché un intervento così riformista fa ancora difficoltà a riscontrare pareri positivi nell’opinione pubblica?
«In realtà l’intento del provvedimento era semmai l’opposto, cioè quello di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato. Dunque, il precariato non c’entra nulla. La verità è che il dibattito sul Jobs Act rispecchia l’incapacità del dibattito pubblico italiano di giudicare sulla base dei fatti, in base a una lettura il più possibile corretta e oggettiva dei dati. Naturalmente, continueranno a esserci visioni diverse, perché in una società aperta non possiamo aspettarci una verità rivelata dall’alto ma quantomeno ci sarebbero spazi per una discussione politica più matura».

I partiti invocano maggiore stabilità di governo, ma l’opposizione fa le barricate contro il premierato. Il testo, pur con diverse lacune, ha un’anima riformista di base?
«Si possono fare tutte le critiche che si vogliono al testo del governo, e alcune che ho letto sono sicuramente fondate, ma accusarlo di ritorno al fascismo o di rischi autocratici mi pare prova di assoluta malafede. Senza sopravvalutare le chance di successo dell’ingegneria costituzionale, provare a rendere più stabili i governi e ad aumentare i poteri oggi limitati del capo dell’esecutivo, rispetto praticamente a tutti i suoi colleghi saldamente democratici del G7, non mi pare un’eresia».

Una delle misure rivendicate con maggiore orgoglio dal governo Meloni è il taglio del cuneo fiscale, che però viene finanziato di anno in anno. Qual è l’equilibrio tra l’importanza di rendere strutturali le riforme e la necessità di muoversi con poche risorse economiche a disposizione?
«L’equilibrio attuale è nulla più di un second best, anche se occorre riconoscere all’attuale governo e in particolare al ministro Giorgetti di avere svolto una buona navigazione in acque potenzialmente molto agitate. Tuttavia, se si vuole dare una svolta verso un recupero della produttività e un aumento della crescita, per forza di cose occorre andare oltre la manutenzione ordinaria dell’esistente. Per fare un esempio concreto, credo che la riforma del Patto di stabilità, se ben sfruttata, possa essere l’occasione per riprendere l’esperimento della spending review, introdotto dal governo Letta e colpevolmente interrotto dopo un buon inizio da quello Renzi. Si può naturalmente decidere di svolgerlo diversamente dal passato ma non si può pensare di recuperare ingenti risorse per il duplice obiettivo di dare una sforbiciata al debito e di liberare le energie di imprese e lavoratori senza una riforma complessiva della finanza pubblica, che valuti attentamente costi e benefici delle singole voci di spesa e della giungla attuale di detrazioni e deduzioni».

Un altro punto tanto caro al centrodestra è il nuovo impianto del fisco. Per Meloni era «atteso da 50 anni» e renderà l’Italia «più attrattiva». Quanto c’è di riformista nei progetti dell’esecutivo?
«Il rapporto tra fisco e contribuenti è certamente un pilastro del sinallagma democratico e ci sono molti modi per migliorarlo. Dunque giustissimo accendere i riflettori ma soprattutto interessarsi seriamente dei tanti problemi che ci sono, trovando il giusto equilibrio tra la necessità di ridurre l’evasione e quella di alleggerire il combinato disposto del peso burocratico e fiscale. Anche se al momento mi pare che il cantiere sia appena iniziato. E, visto che non si può credibilmente immaginare di fare una riforma fiscale di questa portata a ogni legislatura, sarebbe utile trovare quantomeno alcune linee di convergenza con l’opposizione».

La riforma della burocrazia, invece, è ancora ferma al palo. È un’urgenza destinata a restare senza risposta?
«Uno dei principali meriti del Pnrr avrebbe dovuto palesarsi in un nuovo approccio della burocrazia italiana, orientata finalmente più a risultati di sostanza che di forma. Ma l’interpretazione all’italiana delle riforme contenute nel Piano (basti pensare ai testi delle ultime leggi annuali della concorrenza) mi lascia molti dubbi. Anche se da riformisti convinti quanto testardi non è il momento di desistere ma semmai di pungolare e rilanciare».