“Basta con i cellulari in classe: sono un elemento di forte distrazione. E il tablet non deve sostituire la scrittura a mano”. Lo ha detto Valditara, aggiungendo che a breve torneremo ad avere studenti impegnati a intingere il pennino nell’inchiostro e quindi dovremo bucare tutti i banchi a rotelle. La seconda parte è ironica, la prima no: il Ministro dell’Istruzione e del Merito è tornato a sconsigliare l’utilizzo degli smartphone in classe. E lo fa sostenuto da una vastissima letteratura.
Ci sono tanti studi che provano come l’utilizzo di telefoni e tablet fin dall’infanzia riduce l’apprendimento dei bambini (consiglio particolarmente una ricerca pubblicata dall’Università Bicocca di Milano in collaborazione con la SUPSI). Anche l’Unesco, in un rapporto pubblicato la scorsa estate, si era spinto a chiederne il bando, motivato dal fatto che un utilizzo eccessivo dei cellulari limita l’apprendimento e ha effetti negativi sulla stabilità emotiva dei bambini, soprattutto se già colpiti da altre fragilità. Basta comunque un po’ di buon senso (cosa non sempre diffusa) per capire che un bambino di sei anni o poco più grande non può passare le giornate davanti a uno schermo e che questo può portare a effetti negativi sulla sua concentrazione, il suo rendimento e la sua formazione. Sembra quasi assurdo che il Ministro debba ricordarlo.
Un approccio diverso invece può essere utilizzato quando ci si riferisce a studenti più grandi, delle scuole superiori. Studenti che fanno parte della prima generazione nativa digitale, che utilizzano il telefono per ogni loro necessità e che fanno della tecnologia non un semplice mezzo ma una vera e propria estensione di sé. Giusto o sbagliato che sia. La tematica, ridotta a semplice proibizionismo da più parti, è in realtà molto complessa e discussa anche in altri Paesi. Alcuni Stati americani hanno vietato l’utilizzo dei cellulari dopo la pandemia, quando il loro utilizzo era esploso da parte degli studenti. Alcune scuole si sono attrezzate con degli armadietti in cui i ragazzi sono obbligati a riporre i telefoni prima di entrare nelle diverse classi, altre semplicemente hanno previsto pene severe per chi tira fuori il telefono dallo zaino.
Alcuni Stati hanno introdotto un divieto permanente, mentre altre ne permettono ancora l’utilizzo durante i pranzi o i cambi dell’ora. In alcune di queste scuole i docenti si dicono molto contenti: è aumentata la concentrazione e la partecipazione degli studenti alle attività in classe e pare sia diminuito il livello di stress di molti ragazzi. La discussione si è a volte estremizzata: in certi casi il dibattito si è acceso sulla sicurezza degli studenti, visto che nelle scuole sono frequenti sparatorie in cui il cellulare può essere utile per avvisare tempestivamente le autorità, mentre delle scuole di ben 32 stati stanno pensando di fare causa alle aziende proprietarie dei principali social media, così come fatto poco tempo fa dalla città di New York.
Misure simili sono state prese nei mesi scorsi nel Regno Unito, in Finlandia (dove il ban è valido solo per gli studenti fino a 15 anni), in Francia e in Olanda. In tutti i casi la presentazione delle direttive è stata motivata, così come in Italia, dalla necessità di ridurre le distrazioni per i ragazzi e permettere loro di concentrarsi unicamente su ciò che avviene in classe e non fuori, sull’apprendimento e non su chat o social media. Diverse ricerche, inoltre, hanno evidenziato negli ultimi anni come i cellulari -o, meglio, il loro utilizzo- siano spesso causa e luogo di episodi di cyberbullismo. Altre, invece, evidenziano come per una fascia giovane già piena di fragilità l’utilizzo degli smartphone possa essere assimilato a una droga, tra app che stimolano la dopamina in maniera ossessiva e la necessità di cercare approvazione di amici e non sui social media.
Insomma, sono tanti gli elementi che, senza ombra di dubbio, ci dicono che il divieto è la misura corretta: per gli studenti più piccoli, ma anche per quelli più grandi. Ma siamo certi che il proibizionismo sia la risposta giusta? Io, personalmente, qualche dubbio lo sollevo, unicamente pensando agli studenti delle scuole superiori.
Già il rapporto PISA 2022, ovvero la ricerca dell’OECD sullo stato dell’apprendimento, aveva evidenziato qualche perplessità. In primis, non sempre i divieti sono stati rispettati: il 30% degli studenti aveva dichiarato di utilizzare lo stesso i propri dispositivi a scuola, nonostante i divieti. Un secondo effetto è l’utilizzo dei telefoni al di fuori della scuola, con gli studenti meno propensi a limitarne l’uso di notte, come se dovessero recuperare il mancato utilizzo di giorno. Ma, soprattutto, lo studio ha dimostrato come un utilizzo moderato e guidato dei cellulari a scuola potrebbe portare a rendimenti superiori: gli studenti che trascorrono fino a un’ora al giorno su dispositivi digitali per attività di apprendimento a scuola hanno ottenuto risultati migliori in matematica rispetto agli studenti che non trascorrono tempo su tali dispositivi. Il rendimento invece diminuisce quando le ore spese davanti allo schermo, per svago e per apprendimento, aumentano.
È forse questa la chiave di lettura migliore. L’uso moderato di telefoni e tablet non è intrinsecamente dannoso e può persino essere positivamente associato alle prestazioni. È l’uso eccessivo o improprio di dispositivi digitali che è negativamente associato alle prestazioni. Ma allora davvero un divieto è la soluzione migliore? Non sarebbe più opportuno incentivare, per alcune materie, metodi nuovi di insegnamento che coinvolgano i ragazzi anche attraverso nuove tecnologie? Non sarebbe più utile insegnare ai ragazzi l’utilizzo delle tecnologie, magari coinvolgendo anche docenti e famiglie?
Già nel 2018 Stefano Bartezzaghi, aveva affermato che “il telefonino non deve entrare in classe come fa già, cioè come il mazzo di figurine doppie o una qualsiasi altra coperta di Linus nascosta nella cartella. Se la scuola ha perso autorevolezza, come si può pensare che la recuperi senza accogliere le tecnologie dell’informazione tra i propri strumenti e anche tra i propri argomenti?”. Sono passati cinque anni da quella dichiarazione, e forse stiamo tornando indietro.