Mentre a Roma strillano gli amici di Travaglio e del sindacato delle toghe contro il decreto Nordio che tutela la reputazione di ogni cittadino sottoposto a indagini, parte da Milano l’iniziativa più sensata e rivoluzionaria. Un protocollo firmato a palazzo di giustizia tra i vertici della magistratura e gli ordini di avvocati e giornalisti perché si ponga fine al commercio clandestino di atti giudiziari come quelli che transitavano dalla procura nazionale antimafia a certe redazioni.
Nelle inchieste più rilevanti i giornalisti accreditati potranno avere direttamente dalle cancellerie le ordinanze di custodia cautelare e i decreti di sequestro preventivo senza omissis. Una vera svolta, dopo decenni di carriere costruite, sia quelle di certi pm che quelle dei cronisti giudiziari, solo sulla capacità del commercio di carte, quelle che avrebbero dovute restare segrete. Si sono messi intorno al tavolo per oltre un anno il presidente del tribunale di Milano Fabio Roia, il procuratore Marcello Viola, il presidente dell’ordine degli avvocati Antonino La Lumia e quello dei giornalisti della Lombardia Riccardo Sorrentino e la presidente della Camera Penale Valentina Alberta. Hanno preso in esame le situazioni di cronaca giudiziaria in cui più di altre l’interesse giornalistico andava posto sulla bilancia al pari con la tutela della presunzione di innocenza. E hanno posto l’accento sui casi di crimini particolarmente gravi, del coinvolgimento di personaggi noti o di arresti in flagranza e misure di custodia cautelare in carcere. Abbiamo adottato un sistema di trasparenza, ha spiegato il presidente Roia. “È un punto d’incontro -ha commentato il procuratore Viola- tra esigenze non contrapposte ma concorrenti”.
Come spesso succede, non solo nel settore della giustizia, Milano si rivela una volta di più un passo in avanti, grazie anche al ritrovato equilibrio dei vertici di una magistratura che preferisce mettere le carte in tavola piuttosto che fare la faccia feroce salvo poi lavorare sottacqua, collaborando alla pubblica gogna, come troppo spesso capitato negli ultimi trent’anni. Ed è bene che questa pagina si sia chiusa, come si spera, proprio ieri mentre si celebravano i funerali di Paolo Pillitteri, uno dei sindaci più amati e anche più vilipesi dal circo mediatico-giudiziario degli anni novanta. Naturalmente non mancheranno gli scontenti, tra le toghe come in certe redazioni, anche perché la firma del protocollo milanese è caduta negli stessi giorni in cui il Consiglio dei ministri ha licenziato un decreto che interviene sulla stessa materia, e in particolare sulla pubblicabilità degli atti nella fase delle indagini preliminari.
Non va dimenticato che il punto di partenza di tutte queste iniziative è un provvedimento importato dall’Europa sulla tutela della presunzione di innocenza, con la direttiva del 2016 che vietava alla magistratura e alla stampa di presentare la persona indagata o imputata come colpevole. Quella direttiva aveva trovato la prima applicazione in Italia grazie a interventi del deputato Enrico Costa e della ministra del governo Draghi Marta Cartabia, mentre strillavano, proprio come oggi, il sindacato delle toghe e quello dei giornalisti, come se si stesse attentando alla democrazia. Ma benedetto sarà il giorno in cui si porrà fine alla pubblicazione di questi documenti che sempre di più sono diventati veri pamphlet ricchi di intercettazioni che parevano finalizzate a cucire addosso al malcapitato un vestito su misura più per la gogna che per la reale imputazione.
Il decreto votato dal consiglio dei ministri nella seduta di lunedì vieta la pubblicazione delle ordinanze “che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Il che non significa che di una certa notizia non si possa parlare, ma solo che non si può pedissequamente copiare quanto scritto dal giudice. Ed è paradossale la protesta da parte della federazione della stampa, quasi come se non ci si fidasse dei propri cronisti. La verità è un’altra ed è racchiusa in una sola parola, “intercettazioni”. Sono quelle, tra l’altro spesso mal trascritte e ancor peggio interpretate, che perdono di efficacia se non riportate tra virgolette. E meno male che è così. Pensate alla differenza tra riportare una frase del tipo “guarda che ti ammazzo” e “Tizio disse a Caio dell’intenzione di ammazzarlo”.
Peggio ancora quando si tratta di conversazioni tra esponenti politici, come insegna tutta la sovraesposizione dell’inchiesta che ha visto a Genova come imputato l’ex presidente della regione Liguria Giovanni Toti. Pure girano frasi di commento negativo che paiono variabili impazzite. Dalla Federazione della stampa che lamenta “Un altro provvedimento pensato per proteggere delinquenti e colletti bianchi”, fino ai vertici del sindacato delle toghe che addirittura paventano una “compressione di spazi vitali per la democrazia”. E chissà che cosa succederà quando sarà approvata la norma sulla separazione delle carriere tra funzioni requirenti e giudicanti. Terza guerra mondiale?