Il grillismo e la politica di massa
Storia del Movimento 5 Stelle: ascesa e caduta del grillismo e dei suoi ammiratori
Lo scenario è il solito. Nato come una tragedia nel cuore di una crisi generale dell’economia, della politica, della società, il M5s sta morendo come una colossale farsa, tra investiture annunciate, ritiro della donazione dello scettro, telefonate di riappacificazione, prove di ripensamenti al Tempio di Adriano. Espressione di un dato culturale profondo, ovvero l’antipolitica come un sedimento non effimero delle credenze collettive, il non-partito grillino ha avuto la capacità di attrarre gli opposti. Ha ricevuto il sostegno di uno storico come Della Loggia, che invita ad archiviare l’antifascismo come principio fondativo della repubblica, ma ha anche attratto le simpatie degli storici della memoria, delle radici resistenziali.
Il suo manifesto ideologico può senz’altro essere rintracciato nel libro La casta che ha scalato le classifiche sfruttando le pulsioni più volgari dell’epoca così decadente. Ma anche nella cultura politica più raffinata non sono mancate le munizioni per radicare un senso comune antipolitico. Alle origini di tutto il fenomeno grillino c’è il predominio della sottocultura del giustizialismo, che ha afferrato la questione morale e l’ha brandita come arma di distruzione della politica di massa. Veleno profondamente ambiguo, il codice giustizialista ha garantito un supplemento di vita a chi lo ha cavalcato ma ha iniettato nel contempo una dose letale nell’organismo partitico che in pochi anni è stato fiaccato nella sua capacità di sopravvivenza. La sinistra, che oggi vaga alla ricerca di un qualche mappa identitaria, non ha saputo offrire altro alle sue masse di riferimento che simbologie punitive, domande sulle consuetudini sessuali di Arcore, invocazioni del carattere salvifico del tintinnio delle manette. Anche quando Veltroni ha rinunciato alla centralità dell’antiberlusconismo, ha però siglato un patto di alleanza con Di Pietro perché si può rompere a sinistra, ma non con il tribuno dell’antipolitica, del No-Cav Day, che parla di Berlusconi come «stupratore della democrazia», di Monti come «l‘aguzzino del popolo».
Il grillismo ha il volto di una tragedia proprio perché ha radici ovunque, non è spuntato come un fungo improvviso. La sua natura l’hanno decifrata meglio i linguisti che i politologi. Con l’aggressività verso il nemico, con le formule seducenti, o anche flatus vocis, il linguaggio di Grillo eredita «il passaggio dal paradigma della superiorità al paradigma del rispecchiamento» (G. Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Bologna, 2016). Il politico tende a mostrarsi come il pubblico, con il vantaggio della semplificazione, della boutade, dell’invettiva secondo la tecnica dell’argomentum ad personam congiunta anche alla retorica ludica, rinunciando strategicamente a ogni idea di superiorità che richiede forma, coerenza espressiva. Il paradigma del rispecchiamento, che giunge all’apice con la svolta linguistica del Vaffaday, incentiva una “corsa al ribasso” con la «ipostasi, talvolta la caricatura, dell’italiano medio» e l’inclinazione al turpiloquio con «il frequente uso rafforzativo di cazzo».
I politologi, dinanzi a questo affresco nitido abbozzato da un linguista, si distinguono invece per incomprensioni (qualcuno aderisce al movimento), per quadri esplicativi oscuri nei quali l’elemento simpatetico (Roberto Biorcio lo accosta a Podemos e ne esalta il tratto di movimento civico-deliberativo-partecipativo) ostacola l’ermeneutica corretta del fenomeno. Al cospetto di una realtà di partito raffigurata nei termini mostruosi di “nuovi Leviatani” che succhiano il nettare in un “giardino di delizie” e si arricchiscono allegramente “incistandosi nello Stato”, Piero Ignazi rinviene addirittura una “eco tocquevilliana” negli affondi scurrili di Grillo contro la casta, la rappresentanza e per la democrazia diretta, senza mediazioni.
Accostare al precoce censore dei pericoli del dispotismo di maggioranza l’inno di Grillo per una volontà politica totale («vogliamo il 100 per cento del Parlamento, non il 20, il 25 o il 30. Quando il Movimento otterrà il 100 per cento i cittadini saranno diventati lo Stato, il Movimento non avrà più bisogno di esistere») risulta alquanto problematico.
Anche lo storico inglese Perry Anderson non scherza negli elogi a Travaglio e al M5s come «l’unico tentativo in Europa di una forza antagonista a ciò che si è impossessato della democrazia rappresentativa». Neppure lo sfiora il sospetto che possa essere alquanto regressiva una alternativa alla rappresentanza ricercata in una variante ribellistica di partito personale disegnato con un algoritmo il cui fondatore-garante-elevato esercita un controllo assorbente e sviluppa una resistenza estrema dinanzi ai tentativi di normalizzazione. Naturalmente è del tutto inutile, dinanzi a certe infatuazioni della ormai vecchia New Left, rammentare le parole di Grillo: «Non venite a rompermi i coglioni sulla democrazia. Se c’è chi reputa che io non sia democratico e che Casaleggio si prende i soldi, prende e si toglie dalle palle».
Capita anche ai movimenti politici, come succede entro i legami privati, che gli elementi di verità circa la loro autentica natura affiorino solo quando tra i partner volano i cocci. E così tocca a un risentito Casaleggio fornire una perfetta radiografia culturale e sociologica del non-partito di cui sta perdendo il controllo aziendale. Il padrone espropriato della piattaforma dichiara: «Il modello del M5s ha consentito di ottenere il 33 per cento di fiducia del paese e ha dato la possibilità a migliaia di cittadini sconosciuti, come lo stesso Giuseppe Conte, di rivestire ruoli prestigiosi e di potere impensabili». Il M5s nel 2013 elegge 161 deputati tutti privi di precedenti incarichi elettivi, con una età media di 33,7 anni, la più bassa della storia repubblicana. Si tratta di novizi reclutati attraverso il filtro delle parlamentarie (e secondo l’inesperienza coltivata come valore assoluto: eguali nell’ignoranza è stato detto) facili, proprio per la loro condizione professionale precaria, da ricondurre a disciplina.
Il vincolo non è programmatico-ideale (su tutto il non-partito ha cambiato celermente opinione: sulle alleanze, sul compromesso, sulla partecipazione al talk show, sull’euro, sulla Tav, sulle trivellazioni) ma riconduce all’incentivo materiale. È sulla prosaica faccenda del terzo mandato che si stringono alleanze e opposte fedeltà. Nato dalla tragedia della crisi, il non-partito scommette di sopravvivere grazie alla farsa di una battaglia incolore tra l’Elevato che inorridisce per i gesti di disobbedienza e il nominato che si sente oltraggiato per il ritiro inopinato della donazione di Bibbona. E se entrambi i duellanti venissero scacciati dal Tempio?
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