Due anni fa, avendo trovato un filmato che ancora non conoscevo, scrissi un lungo articolo sull’alleanza fra Hitler e Stalin, nota come Trattato di non aggressione Ribbentrop-Molotov, in cui descrivevo quel che chiunque può vedere nei filmati: i generali e i soldati, sia dell’esercito nazista che di quello sovietico partecipano a una comune parata militare a Brest Litovsk (oggi Brest in Bielorussia). Lì l’Armata Rossa rende onore alla Wehrmacht nazista con fanfare e festoni e con bandiere con stella falce e martello più svastica, pranzo di gala con limousine nere e volti sparuti di bambini polacchi ebrei che non sanno ancora quel li aspetta.

Quel che aspettò me fu una caterva di insulti su questo tono: «Come ti permetti lurido mascalzone di infangare l’onore dell’Unione Sovietica che ha da sola sostenuto e respinto con più di venti milioni di morti l’invasione nazifascista?».
E poi, quanto al “patto di non aggressione” Ribbentrop-Molotov mi veniva spiegato per l’ennesima volta che si trattò di un capolavoro di astuzia di Stalin il quale, perfettamente consapevole del fatto che prima o poi Hitler avrebbe aggredito l’Urss, stipulò quel “patto di non aggressione” che gli fece guadagnare tempo prezioso durante il quale le divisioni dell’Armata Rossa e le industrie belliche furono trasferite fin sugli Urali, sicché poi quando venne il momento, l’Urss guidata da Stalin e un gruppo di magnifici generali seppero resistere, e conquistare Berlino, costringendo Hitler al suicidio e la sua cricca alla forca.

Comunque, una non-aggressione è pur sempre il contrario di una aggressione, o no? Ecco il punto. No.
Tutto quel che c’è da sapere su questa storia è pubblico ed accessibile a tutti. Ma l’intera storia non è stata mai raccontata se non in modo sfuggente. La storia del “patto” è tragicamente imbarazzante sia per come cominciò che per come finì. Cominciò quando, nel luglio del 1939, Hitler pensò che fosse ora di riprendere la conquista incompiuta in Europa, dove aveva già occupato tutte le zone tedescofone, compresa la Cecoslovacchia, e l’aveva fatto con il permesso di Francia e Inghilterra alla conferenza di Monaco del 1938, organizzata da Benito Mussolini.

Stalin a Monaco non fu invitato. E neanche i cecoslovacchi furono invitati. Stalin se la legò al dito, considerando i paesi capitalisti e imperialisti (ma non la Germania nazional-socialista) come traditori. Francia e Inghilterra a Monaco avevano avvertito Hitler che la Cecoslovacchia era da considerare l’ultimo acquisto tedesco e che se per caso Hitler avesse attaccare la Polonia, Francia e Inghilterra sarebbero intervenute in sua difesa. Il primo ministro inglese Neville Chamberlain tornò a Londra sventolando sorridente un trattato firmato anche da Hitler che avrebbe dovuto garantire la pace per vent’anni. Fu allora che Winston Churchill commentò: «Hanno svenduto l’onore per la pace e otterranno il disonore e la guerra». La Polonia stessa pretese a Monaco un pezzo di Cecoslovacchia.

Tutti mostravano enormi appetiti dopo la fine della Prima guerra mondiale, che aveva scoperchiato un’Europa di mille lingue e costumi, senza confini, ma con molte ambizioni e dagli anni Venti in poi era stata un teatro di colpi di mano, rivoluzioni mancate e formazioni di milizie. Hitler l’aveva scritto con estrema chiarezza nel suo Mein Kampf: al mondo sarebbero dovute restare soltanto due potenze di stirpe tedesca, la Germania e la Gran Bretagna, che considerava un Paese consanguineo con cui sperava di fare la pace. Che non venne mai. Quanto all’Est, era stato molto chiaro: tutti gli slavi andavano trattati da sotto uomini, da sottomettere o eliminare e comunque da cacciare dalle grandi pianure destinate a costituire lo «spazio vitale» del grande e potente «popolo tedesco».

Stalin si era fatto tradurre personalmente il Mein Kampf e lo aveva letto sottolineandolo con una matita azzurra.
In quel libro erano anche nominati tutti i capi della rivoluzione bolscevica, lui compreso, come assassini, banditi da strada e – nel caso di Stalin – ex rapinatori di banche. Stalin non era un tipo emotivo. Non era neanche un grande oratore. Diversamente da Hitler e Mussolini scriveva accuratamente i suoi discorsi diligenti e ideologici, ma senza slancio passionale e con un inguaribile accento georgiano. Tutti lo descrivono come paranoico, ma probabilmente aveva ben presente la posta in gioco in una partita di potere così lunga e complessa come la formazione dell’Urss e le guerre da combattere. Prima una guerra proprio con la Polonia, persa malamente nel 1920 da lui e da Trotsky. Poi la interminabile guerra civile con gli eserciti stranieri e quelli dei generali “bianchi”. Infine una guerra sotto casa, al confine fra Siberia e Manciuria, dove si erano installati da un decennio i giapponesi, che provocavano continui scontri di frontiera.

In questi si faceva le ossa uno dei futuri eroi, il generale Zukhov, uno dei pochi che si salvò dalle purghe che nel 1937 portarono al plotone d’esecuzione quasi tutti gli alti e medi ufficiali, partendo dal divo generale Michail Nikolaevic Tuchacesvkij, maresciallo dell’Unione sovietica a 44 anni e inventore dell’uso moderno dei carri armati e dell’aviazione, di cui Stalin era gelosissimo fin dal 1930 quando lo chiamava “il piccolo Napoleone”.  In quella mattanza di generali e marescialli, i tedeschi avevano messo lo zampone con la diffusione di documenti falsi preparati da Renhard Heydrich, il gelido comandante delle SS di cui Hitler diceva: «Quell’uomo ha un cuore di ferro, ne sono orgoglioso ma mi fa paura». Le carte tedesche furono fatte passare per le mani del presidente cecoslovacco Benes e dalle sue a quelle di Stalin, il quale però non le prese in grande considerazione, perché aveva già deciso di far fuori quell’astro nascente che gli ricordava Napoleone. Non erano tempi confrontabili con i nostri, se non per il culto della menzogna storica, il sacro Graal delle bugie per cui ognuno è sacrificabile.

I “trattati di non aggressione” erano di gran moda negli anni Trenta perché potevano essere disdetti in qualsiasi momento, ma servivano momentaneamente per fornire reciproche garanzie. Il punto era che il “patto di non aggressione” offerto dai tedeschi ai sovietici era una scatola di cioccolatini con doppio fondo. In superficie, uno strato di parole diplomatiche che certificavano la stabilità delle relazioni fra i due Paesi. Ma nel doppiofondo c’era un altro documento in cui si diceva che quando la Germania avesse ritenuto di agire in Polonia, l’Urss doveva sentirsi libera di agire in una serie di Paesi concordati. Questi Paesi erano la Finlandia, le tre repubbliche Baltiche, parte della Romania e parte della Bielorussia.

Come era nato questo accordo? Da un discorso di Stalin a Mosca in cui aveva compiuto una distinzione fra la Germania nazional-socialista e le potenze imperialiste occidentali. Ci fu molto brusio nelle cancellerie perché von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, insistette molto con Hitler affinché prendesse in considerazione l’eventualità che Stalin potesse essere considerato almeno nel medio periodo un alleato. Hitler non aveva alcuna personale simpatia per Stalin e mandò il suo fotografo personale insieme alla delegazione che partiva per Mosca, affinché fotografasse i lobi delle orecchie di Stalin per vedere se l’attaccatura fosse di tipo semita o no. Non risultò semita e questa era già una buona cosa. Stalin, viceversa – le testimonianze in proposito sono abbondantissime – aveva un debole proprio per alcuni aspetti canaglieschi di Hitler.

Apprezzò moltissimo quando il Führer, un anno dopo essere stato nominato cancelliere, decise di liberarsi di Ernst Roehm e delle sue milizie ormai inutili e sgradite, facendo trucidare più di centocinquanta uomini o costringendoli al suicidio. Roehm, come molti dei suoi uomini, erano omosessuali e furono colpiti di notte nei loro letti insieme ai loro giovani amanti. Quando Stalin conobbe i dettagli di questa storia scoppiò in una esclamazione di entusiasmo: «Ma è un vero diavolo, questo Hitler! È bravissimo!».

(1 – continua)

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.