Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi furono tra le coppie più amate degli anni ’70 e ’80. Il loro amore fu molto chiacchierato, ma tuttora viene ricordato con nostalgia e romanticismo. Originari rispettivamente di Genova e Lentate sul Seveso, Fabrizio e Dori nel 1976 decisero di trasferirsi in Sardegna a Gallura, nelle campagne di Tempio Pausania, acquistando 151 ettari di terra divisi in tre appezzamenti distinti: Donna Maria, L’Agnata e Tanca Manna. De Andrè scelse volutamente la terra sarda come luogo in cui vivere: “Questo luogo è una magia, dà tanta gioia per l’anima, anche quando torni a casa distrutto dalla stanchezza. Ti appaga e non lascia spazio alle inquietudini. Vivere questa dimensione è il modo più semplice ma anche il più profondo di vivere questa terra”. L’isola però fu anche luogo di una delle vicende più brutte capitate in quegli anni. La sera del 27 agosto 1979 infatti Fabrizio De André e Dori Ghezzi vennero rapiti. Furono prelevati dall’Anonima Sequestri dalla loro abitazione e tenuti prigionieri nelle pendici del Monte Lerno, a Pattada.

IL SEQUESTRO – L’estate del 1979 fu costellata da una raffica di rapimenti, otto in totale e dieci ostaggi in simultanea nelle mani dell’Anonima Sequestri. Quando arrivò la notizia del sequestro di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi tutta l’opinione pubblica rimase con il fiato sospeso. Il 27 agosto 1979 casa De André era diventata uno dei luoghi più popolati e osservati. La preoccupazione era anche rivolta alla figlia della coppia, Luisa Vittoria, e al primogenito di De Andrè, Cristiano, ancora un bambino. Secondo i racconti degli artisti i rapitori erano sempre incappuccati, anche loro potevano restare raramente scoperti. “Fummo presi e fatti scendere al piano terra – raccontarono i due in seguito -, dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino“. Dalle indagini emerse come le vittime avessero indirizzato una lettera al padre di Fabrizio, nella quale gli chiedevano di pagare un riscatto di 2 miliardi di lire per il rilascio dei due. La loro liberazione avvenne quattro mesi dopo anche se in due momenti differenti: lei il 21 dicembre alle undici di sera, mentre lui il 22 alle due di notte su versamento di un riscatto pari a circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre di Fabrizio, Giuseppe.

Quando è iniziata la stagione fredda ci hanno dotato di una piccola tenda per ripararci dalle intemperie. Abbiamo sostato in quel luogo fino alla interruzione delle trattative condotte dai secondi emissari. Le informazioni che ci davano erano che il padre di Fabrizio non volesse pagare il riscatto. Ci proponevano di liberare Fabrizio per pagare il mio riscatto o, viceversa, di liberare me affinché Fabrizio convincesse il padre a pagare la mia liberazione. Alla supplica di Fabrizio di alleviarci dalla torture delle bende i banditi acconsentirono, legandoci però con delle catene perché non scappassimo” – così racconta Dori di quel lungo periodo di prigionia – “Uno dei banditi, che di tanto in tanto veniva per accertarsi delle nostre condizioni, raccomandando ai custodi di trattarci bene, comunicava in italiano corretto e forbito, si esprimeva in modo calmo e gentile, che Fabrizio chiamava “l’avvocato”. Dopo il 5 novembre siamo stati nuovamente spostati su un altro versante della montagna. In quel rifugio le tende erano due, una per noi e una per i custodi; ci dotarono anche di un fornello da campo e di una bombola di gas per preparare cibi caldi. Fino ad allora ci nutrivano con pane e formaggio, salsiccia e scatolame”.

Infatti l’inizio di novembre fu il periodo in cui, dopo un lungo e preoccupante silenzio, ci fu un nuovo contatto fra sequestratori e i familiari. Gli emissari della famiglia incontrarono per due volte i rapitori anche con scarsa riuscita. Seguirono altri incontri, ma le linee divergenti all’interno della banda stessa non permisero di raggiungere un accordo per far cessare il sequestro. Solo nella terza fase riuscirono a portare a compimento le trattative e il pagamento di 550 milioni di lire portò alla liberazione degli ostaggi. Altri 50 milioni sarebbero dovuti essere consegnati dopo la liberazione, impegno che venne onorato da Fabrizio De André. Dopo 117 giorni di rapimento il 20 dicembre fu rilasciata Dori Ghezzi mentre De Andrè fu liberato la sera dopo, il 21 dicembre. Dori racconta: “Il 20 dicembre il mio guardiano mi disse che avevano deciso di liberarci. Verso le 15, dopo aver mangiato pane e formaggio, ci incamminammo a piedi percorrendo un tratto di terreno molto scosceso, col viso incappucciato. Mi accompagnano due banditi, di cui il mio guardiano e un altro che non avevamo mai sentito, né visto. Camminammo per almeno 3 ore. Passammo vicino ad una cascata d’acqua, poi attraversammo un fiume. Sentivo l’abbaiare di cani, presumo vicino ad un casolare o forse un ovile; lo intuisco da alcuni rumori. Aspettammo tante, tantissime ore vicino ad una strada nascosti tra i cespugli fino a notte inoltrata. Sono circa le 23 quando finalmente arriva una macchina, una Citroen Pallas, che ci carica a bordo. Io ero sempre con le mani legate e mascherata, sorvegliata dai due banditi. Dopo un po’ di strada, forse mezz’ora, mi fecero scendere lasciandomi sul ciglio della strada in attesa che gli emissari mi venissero a prendere“.

L’avvenimento del sequestro cambiò per sempre la storia e la poetica del cantautore, tanto che scrisse un intero album dedicato al popolo sardo. La canzone Hotel Supramonte è dedicata a quella terribile esperienza, prendendo il nome proprio dal luogo in cui erano stati prigionieri. Il cantautore non serbò rancore verso nemmeno uno dei dieci sequestratori, anzi al processo confermò il perdono per i suoi carcerieri: “Capiamo i banditi e le ragioni per cui agiscono in quel modo, sebbene il reato di sequestro di persona sia tra i delitti più odiosi che si possano commettere”. In seguito aveva anche avallato la richiesta di grazia presentata da Salvatore Vargiu condannato a 25 anni di galera e considerato il vivandiere della banda. Nelle dichiarazioni che rilasciò dopo il rapimento, aveva sempre una parola buona nei loro confronti senza condannarli del tutto: “I rapitori erano gentilissimi, quasi materni. Sia io sia Dori avevamo un angelo custode a testa che ci curava, ci raccontava le barzellette. Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po’ di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dirci che non godeva certo della nostra situazione. Anzi, arrivò a sostenere che gli dispiaceva soprattutto per Dori.”

La stessa artista in seguito ha confermato la versione del compagno testimoniando a favore dei carcerieri come ci fosse “una sorta di rispetto reciproco” . “Tutto sommato le nostre condizioni non erano molto più dure. I nostri custodi non sono stati aguzzini. Tant’è che per tutta la prigionia sono sempre stata convinta che ci avrebbero rilasciato anche nel caso che il riscatto non venisse pagato”, ha raccontato Dori chiudendo una delle pagine più tristi della sua storia e di quella italiana.