La Onlus
Storia della “Pane quotidiano”, associazione che pensa ai più deboli in una Milano distratta…
Tre-quattrocento grammi di pane, un litro di latte, la pasta, il formaggio, la verdura. Per Natale ci sarà pure il panettone. Fra 3.500 e 4.000 sono le persone a cui la onlus Pane Quotidiano, fornisce un pacco alimentare a ogni giornata, in Lombardia, fra le sedi di Monza e Milano. In viale Toscana la strada sale leggermente, in basso, dal semaforo, si può osservare il sinuoso tracciato del marciapiede che porta alla sede milanese della organizzazione umanitaria: per anni gli automobilisti la strada la hanno percorsa in fretta, pure se c’era il rosso stavano distratti, non guardavano al travaglio umano che si dipanava sul rialzo di lato alla carreggiata.
Di chi fosse quella gente non importava tanto, nemmeno la si notava, i pochi a scorgerla tiravano su i finestrini anche se fosse agosto: le facce di quelli in coda erano di un altrove che un mare del sud aveva scaricato a Milano, magari da un altro pianeta. C’erano i migranti, un po’ di clochard. Ora le foto delle file, davanti al Pane Quotidiano per il pacco alimentare, montano le pagine dei giornali, si lasciano cliccare sui siti online. Adesso lo sanno tutti che la fila è fatta di affamati. I finestrini, anche se è dicembre, vanno giù, per vedere meglio, quasi per sentire l’odore della povertà che proviene dalla fila. Tutto ha una sua dignità, ogni gesto umano, dipende da come lo si porge. Anche nel chiedere, nell’accettare c’è nobiltà, se ci si rivolge o si acconsente con la risolutezza del non dovere nulla in cambio se non la riconoscenza.
La fila in viale Toscana, insieme all’altro, comprende un mondo nostrano che molti vorrebbero venisse anch’esso da un pianeta lontano. Invece gli occhi di chi passa incrociano nella fila sguardi familiari: sembrano quelli di un qualunque vicino, di un amico con cui i contatti si sono persi da un po’. I migranti, i soliti clochard, e sempre più gente come chi ancora monta su una macchina per passare sul viale, gente che qualche tempo fa passava distratta, teneva il finestrino su. Eravamo noi anche prima, in quella fila, ma non ci riconoscevamo, perché avevamo volti più scuri, pelle cotta dal sole, vestiti laceri. È cambiato che ora ci riconosciamo facilmente, negli abiti che sono esattamente come i nostri, nei visi perfettamente identici ai nostri. Non ci distraiamo più. Siamo talmente concentrati che se qualcuno non ci suona da dietro, restiamo inchiodati all’asfalto anche col verde.
È una fila che c’è da anni, che ogni anno nuovo si ingrossa, che il covid19 sta allungando a dismisura, così, fra qualche mese si dovrà impegnare pure il marciapiede che arriva dall’altro viale, Tibaldi. Così fra qualche mese saranno più i nostri degli altri, che magari riusciremo a sentire anch’essi nostri ché il bisogno è la colla sociale più forte, il più grande demolitore di muri. Sul viale Toscana si dipana un’umanità che è un atto d’accusa, la prova di un meccanismo sociale rotto, che si occulta da anni: un ruscello che è diventato fiume e che adesso svanisce nel letto carsico di una pandemia che dopo i vaccini mostrerà un disastro a cui non siamo preparati. L’ascensore sociale è caduto fragorosamente giù dall’ultimo piano e si sono aperte infinite porte girevoli fra la sussistenza e la povertà. Ne nascerà un dramma che colpirà forte, sarà l’ultima ondata dell’infezione.
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