E quella bestia attaccò città come Philadelphia, riducendole a cimiteri senza più terra per seppellire. Lo stesso era accaduto in Francia, dove i soldati americani cominciarono a contagiare gli alleati francesi e inglesi, poi i nemici tedeschi e quindi le popolazioni civili e l’India, la Cina, il Giappone, l’Africa, l’America del Sud. Le immagini che si possono reperire negli archivi mostrano ospedali di infermiere e medici morenti insieme ai loro pazienti, in un clima di censura totale deciso dai governi anche a guerra finita per nascondere la gravità dell’epidemia e l’assoluta mancanza di rimedi. I comandi militari aggravarono ulteriormente l’epidemia ordinando di vuotare ospedali, trasferire malati, spostare il personale medico, senza la minima competenza e senza alcun criterio epidemiologico.

Io ho il ricordo di mia madre, che aveva visto la “Spagnola” quando aveva otto anni, e mi raccontava del terrore, delle morti continue e del fatto che ogni famiglia creava disperate ricette e rimedi per combattere il morbo, bevendo varechina, alcol denaturato, o provocandosi ulcere mangiando quantità eccessive di peperoncino rosso e alcol nell’illusione di creare barriere di fuoco e di forza contro il virus, ma ignorando le basilari regole dell’igiene di massa. Si parlava della Spagnola, ma se ne parlava come di una cosa segreta e vergognosa che la gente cercava di risolvere fra le mura domestiche finché non arrivava il prete per l’estrema unzione.

La terza ondata dell’influenza “Spagnola” si abbatté su popolazioni – specialmente in Europa – decimate dalla guerra, dalla fame, dal cannibalismo che si sviluppò in Ucraina e Bielorussia nel corso delle requisizioni e repressioni delle nuove autorità sovietiche, ma la fame insieme all’epidemia si abbatté sulla Germania vinta, i Paesi bassi, la Spagna e l’Italia, con il suo corollario di demenza, stati allucinatori e una crescita violenta e visibile dell’aggressività. Le truppe che tornavano dal fronte dopo il cessate il fuoco nel novembre del 1918 erano sopravvissute in uno stato di totale brutalità perché per la prima volta nella storia militare gli uomini avevano dovuto combattere contro le macchine – mitragliatrici, tanks, aerei, blindati, sottomarini, siluri – e contemporaneamente contro un morbo invisibile ma presente ovunque, invincibile, imprevedibile.

I soldati si erano trasformati in corpi speciali sul modello tedesco delle Sturmtruppen, gli italiani crearono gli arditi con avanzi di magazzino (fez, pantaloni da cavalleria, camicia nera per combattimenti notturni) e su disegno di un certo maggior Bossi, poi copiato da Mussolini, ma tornarono tutti malati, febbricitanti, furiosi, mentre a Versailles si consumava l’ultimo atto di una tragedia che avrebbe poi avuto un seguito con la seconda guerra mondiale ma che allora sembrava, con la febbre in campo insieme ai fucili, di dimensioni mai viste e mai più raggiungibili. Wilson, in un delirio allucinatorio, ripeteva che questa era la guerra che avrebbe chiuso tutte le guerre, e invece apriva tutti gli spazi a ogni guerra futura.

Ma, finiti i combattimenti e placato il morbo, le gonne si accorciarono sopra il ginocchio, le ragazze si tagliarono i capelli alla maschietta, tutti ballarono il Charleston, scoppiò la febbre del sesso e dell’alcol, del gangsterismo e dei lussi di un mondo di star che sarebbe crollato meno di dieci anni dopo con il crollo di Wall Street e la grande depressione che mise di nuovo tutti in ginocchio, prima che Hitler attaccasse la Polonia e ripartisse tutti il circo della guerra.

Avatar photo

Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.