Ieri la Pepsi Cola ha deciso di cancellare la figura del suo brand: una donna nera detta Aunt Jemima, col fazzolettone annodato sulla fronte, uno dei tanti simboli ripresi dagli stereotipi razziali del bravo zio Tom, quello dei buoni “negroes”, pacifici e soddisfatti del loro ruolo subalterno, come la celebre Mami, la schiava vice-madre di capricciose ragazze bianche in Via col Vento, interpretata nel 1939 da Hattie McDaniel, prima attrice nera a ottenere un Oscar. Sempre ieri, Donald Trump ha tenuto un discorso alla nazione in cui ha annunciato il piano per una radicale riforma di tutti i comportamenti delle forze di polizia federali e locali, affette da tradizioni e addestramenti razzisti, messi in atto anche da black officers, agenti neri al comando di capi della polizia neri o di sindaci e sindachesse nere. Il protocollo che prevede il ginocchio sul collo, quello che ha ucciso George Floyd, “I can’t breath”. Da una mia piccola inchiesta personale ho appreso che anche le nostre forze di polizia prevedono, nel caso di arresti dopo colluttazione, il blocco dell’arrestato con il ginocchio piantato sulla scapola, ma non sul collo. Però, siamo lì. L’America, chi la conosce lo sa, è una nazione fatta di protocolli. È anche il Paese in cui si leggono più libri a testa, perché i libri più diffusi sono quelli che contengono protocolli: come si fa a fare che cosa.

Non importa cosa: uno sbarco in Normandia, una festa per bambini, un rapporto sessuale soddisfacente, una torta di compleanno, una esecuzione capitale, un giardino ben tenuto. Quando gli americani arrivano in un Paese come l’Italia si aspettano di trovare un luogo con regole diverse dalle loro, ma ben spiegate. Restano interdetti quando scoprono che da noi non ci sono manuali e regole precise. Ciò fa parte di una mentalità anglosassone, parzialmente condivisa con inglesi, canadesi, australiani e neozelandesi, ma c’è un fattore ulteriore: soltanto gli Stati Uniti sono un enorme melting pot, un fritto misto in cui non si può insegnare la Storia perché ogni famiglia americana ha quella dei suoi avi, cinesi o peruviani, siciliani o polacchi, e nessuno si vuol far imporre la storia di qualcun altro, come capitava agli scolari algerini ai tempi del colonialismo francese, quando dovevano ripetere che i loro antenati erano dei biondi galli come Asterix.

Anche gli afroamericani, neri discendenti dagli africani rapiti e venduti, chiedono la loro storia e la trovano in centinaia di ottimi libri, reportage, memoirs, romanzi, ma la verità è che la loro storia è “broken”, infranta non soltanto dallo schiavismo, ma dalla ghettizzazione di un mondo che è stato segregato per secoli e amputato nella memoria. Tutto ciò che è accaduto in quel Paese dalla fine della Guerra Civile in poi, è stato un lungo e doloroso processo di cicatrizzazione e conciliazione che però non avrà mai fine perché il peccato originale di cui nessuno può rispondere oggi, ha spezzato le identità. Quando milioni di italiani accettarono di buon grado di emigrare in America, lo fecero con il desiderio di annullare la loro vecchia identità e di assumere quella nuova, non per essere integrati, ma assimilati. Chi ha la pelle di un colore diverso dal bianco non può mai pensare di assimilarsi, come impararono gli americani di origine giapponese, chiusi in un campo di concentramento nel 1941 quando cominciò la guerra contro il Giappone. Gli americani di origine italiana o tedesca non fecero la stessa umiliante esperienza.

Dice il migliore degli analisti americani, George Friedman: «Noi americani siamo diversi da tutti gli altri popoli perché abbiamo scelto di vivere in questo Paese e diventare americani o perché non ci piaceva il Paese in cui siamo nati, oppure perché al Paese in cui siamo nati non piacevamo noi». Friedman è nato nel 1949 a Budapest da una famiglia ebrea sfuggita alla Shoah e ha ragione. Tuttavia, la sua definizione non si applica a tutti coloro che in America non sono andati per scelta, ma sono stati rapiti e venduti, che è appunto quanto è capitato a coloro che hanno la pelle nera e che per molto tempo ha subito anche una damnatio memoriae. Nel 1915 uscì un terribile film: The Birth of a Nation (la nascita di una nazione) che fu acclamato come una vera autobiografia dell’America bianca: nel film si mostra come Abraham Lincoln volle sovvertire l’autonomia dei singoli Stati nei loro rapporti con i “negroes” scatenando la guerra civile e rendendo necessaria la nascita del Ku Klux Klan (una creatura del Partito democratico) e la legge di Lynch che permetteva l’impiccagione dei neri ribelli.

La compravendita di esseri umani era evidentemente accettata anche dalla Chiesa che arbitrava le controversie territoriali in America dei cattolicissimi regni di Spagna e Portogallo: la linea di confine tra Brasile e territori spagnoli fu tracciata negli uffici papali di Viterbo, dove certo non si ignorava lo schiavismo. Santa Romana Chiesa raccomandava soltanto che gli africani fossero doverosamente battezzati e fosse loro permesso di accedere alle messe e ai sacramenti, ma la libertà non era un suo business. La sorte degli Stati Uniti fu e resta unica al mondo: un Paese nato da un nucleo coloniale inglese – le tredici colonie originali da cui le tredici strisce della bandiera – in cui gli schiavi erano stati introdotti dagli inglesi, così come avevano fatto nei Caraibi e in America centrale e che diventavano territori di emigrazione europea. La popolazione americana che visse l’epopea del West e della corsa dei carri, fu un’epopea olandese, tedesca, svedese (e tutto il Mid West statunitense è una filiazione tedesco-svedese) e poi irlandese e scozzese. Gli inglesi alla fine del Seicento consentivano la vendita di qualsiasi essere umano, anche bianchi e biondi irlandesi condannati alla deportazione.

Alla fine del processo di indipendenza americano, la nuova entità politica era spaccata in due fra schiavisti e antischiavisti. Gli schiavisti del Sud ereditavano territori e coltivazioni dell’antica e vastissima Louisiana francese, detta Dixieland per l’uso della banconota francese da Dix Dollars e l’invenzione della macchina detta “Cotton Gin”, la sgranatrice di cotone che permetteva di commerciare grandi quantità di cotone a basso prezzo e che aveva spinto i sudisti a pretendere il mantenimento dello schiavismo, profondamente avversato al nord, dove pure esistevano schiavi, insieme a una borghesia nera libera. Quando nel 1858 Abraham Lincoln, che teneva a battesimo il Partito Repubblicano e che non aveva mai posseduto schiavi, si presentò ai “Great Debates”, i grandi dibattiti contro l’opponente democratico e schiavista Stephen Douglas per il seggio senatoriale dell’Illinois, alla fine perse e non fu eletto.

Ma i grandi dibattiti misero in chiaro una cosa: «Quel che è certo – disse Lincoln – è che gli Stati Uniti non possono andare avanti così: una parte schiavista e l’altra parte nemica dello schiavismo. Non possiamo più reggere questa duplicità. Bisogna assolutamente arrivare a una unificazione. Forse, diventeremo tutti schiavisti: e allora riporteremo gli schiavi anche dove sono stati liberati. Oppure, abbatteremo lo schiavismo dove ancora esiste e cancelleremo questa macchia dalla nostra coscienza collettiva». Le parole di Lincoln erano chiare: l’America doveva emendarsi dal peccato originale inglese e onorare la premessa etica della sua esistenza, fondata sul principio secondo cui “tutti gli uomini sono nati uguali”. Tutti i primi presidenti degli States, a cominciare da Washington, erano stati proprietari di schiavi e alcuni di loro aveva persino avuto folta e colorata prole da amatissime schiave. Lincoln era un giovane avvocato magro dall’aspetto troppo giovanile per essere preso sul serio e per questo decise di farsi crescere quella curiosa barba senza baffi che gli incorniciava il viso. Era chiaro che una sua elezione alla Presidenza avrebbe significato la fine dei privilegi dei proprietari terrieri e fu per questo che non appena cominciarono ad emergere i risultati, avvenne la secessione e scoppiò una guerra che divise Stati e famiglie, combattuta contro un nemico che parlava la stessa lingua e abitava nelle stesse città e che costò fra morti e mutilati, poco meno di un milione di perdite.

Lincoln fu assassinato e dopo un grande processo, otto persone furono impiccate pubblicamente e la loro agonia fu fotografata nei dettagli. Fra gli impiccati per la congiura che aveva portato alla morte del presidente anti-schiavista, Mary Surratt che gestiva la pensione in cui si erano riuniti i cospiratori. Fu la prima donna giustiziata negli Stati Uniti e il racconto del suo supplizio è raccapricciante: disperata per i dolori di una dismenorrea debilitante, essendo troppo leggera fu appesantita da grossi blocchi di legno e strozzata dal cappio per venti minuti prima che morisse. Nessun Paese al mondo ha pagato un prezzo così alto a una causa sociale e morale. Ma la vera guerra scoppiò più tardi, con le successive e lente conquiste degli spazi civili dei diritti e della dignità, dell’istruzione e persino quello di combattere e morire per la propria patria, come accadde nelle Prima Guerra Mondiale e il diritto allo sport, allo spettacolo, all’istruzione, all’università, alle unioni miste che, peraltro, oggi non sono affatto così diffuse e desiderate come negli anni Settanta e Ottanta.

Una famiglia di miei amici neri di New York mi dicono: «Oggi, se ci fai caso, i neri se ne stanno per conto loro e così fanno gli asiatici e i bianchi. Ci sono amicizie e matrimoni, sesso e amicizie fra colori diversi, ma con molto meno entusiasmo di un tempo. Lo vedi alle fermate degli autobus: i neri tendono a stare fra loro e così i bianchi e gli asiatici. Lo stesso accade nei locali pubblici. Nessuno oggi crede che l’inter-razzialità sia una virtù ed è finita l’era in cui si sognava l’americano perfetto, un ibrido di colori e un’arlecchinata di antenati. Oggi ognuno vuol essere simile ai suoi genitori ed amici, e anche i matrimoni misti e il sesso con quelli diversi da te, non è considerato un obiettivo desiderabile: al massimo, non desta più scandalo. L’America è fatta di diversi che chiedono più rispetto che commistione, ognuno a casa sua, sia pure sotto una stessa bandiera».

Fine

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.