Il caso
Storia di Edward, 2 anni unico bimbo rinchiuso nel nido di Rebibbia come al 41 bis
Rimasto solo nel nido. Non è il titolo di un romanzo o di una gustosa serie televisiva, solo nel nido ci è rimasto Edward che ha 2 anni e da settembre dell’anno scorso passa la giornata dentro il nido del carcere di Rebibbia, considerato modello nazionale eppure sempre spazio contornato di sbarre e con una libertà centellinata. Solo che il nido, dopo che sono risultati positivi al Covid-19 due medici e due infermiere che prestavano servizio nel complesso femminile del carcere di Rebibbia, è stato completamente svuotato accedendo a misure alternative di tutti i 14 bambini che c’erano all’inizio dell’emergenza Coronavirus, tutti tranne Edward e sua madre Naza. Lei ha 42 anni e per un cumulo di condanne deve scontare 18 anni di carcere.
Naza non ha commesso nessun reato contro la persona, qui siamo lontani dai boss di mafia su cui si è fatto tanto rumore, ma la sua esistenza difficile di madre di ben 13 figli, il suo cognome non italiano e le condanne per furti aggravati e non l’hanno resa una storia minore, una di quelle vicende laterali che risulta perfino scomodo raccontare in questi tempi in cui buttare via la chiave per i colpevoli è diventata la frase regina del dibattito politico e pubblico. Il carcere, si sa, lo fanno quelli che non hanno abbastanza voce e abbastanza soldi per potersi fare ascoltare e così a Naza non spetta che attendere l’esito del suo ricorso, l’ultima udienza è stata lo scorso mercoledì, e sperare. Le colpe di Edward invece sono le stesse di tutti i figli di madri carcerate: essere figlio. Intanto balza agli occhi un dato: in questi due mesi i magistrati competenti, non solo di sorveglianza, hanno usato tutti gli strumenti per scarcerare i bambini del nido di Rebibbia, a dimostrazione del fatto che se esiste la volontà (non solo sanitaria) di garantire un’infanzia dignitosa a bambini reclusi esistono strumenti a disposizione. Bisogna avere il coraggio di usarli e di osarli.
«Non facciamoci anestetizzare perché l’alba della vita in un carcere non ha senso. I primi mille giorni della vita non possono esser privati di tutti gli stimoli: affettivi, cognitivi, relazionali, ambientali, sociali, sensoriali che formano la personalità e l’identità» scriveva Leda Colombini, partigiana, assessore agli enti locali e ai servizi sociali della Regione Lazio e poi deputata. In Italia esistono 12 nidi nelle carceri, usati per bambini fino al terzo anno di età. C’è una legge, la 62 del 2011, che ha istituito le case famiglia protette che nelle intenzioni dovrebbero garantire ai bambini condizioni il più possibile vicine a quelle dei loro coetanei. Solo tre anni fa a Roma è stata inaugurata la prima casa protetta intitolata proprio a Leda Colombini. Dal 2006 sono stati creati anche gli Icam, istituti a custodia attenuata per detenute madri in cui le recluse possono tenere i loro figli fino al sesto anno di età. Edward è rimasto solo nel nido e sua madre ha un fine pena che scade nel 2037. Strano Paese questo che si innamora dei bambini quando possono servire per riempire qualche colonnina di siti e giornali con una notiziola curiosa e che invece ritiene normale che possano stare all’interno di un carcere in piena pandemia.
Strana politica quella che si ingegna nella narrazione dei fragili e degli ultimi e che non riesce a buttare un occhio al più fragile degli ultimi che oggi ha il sorriso spento di un bambino. Strana anche questa generalizzata informazione che si azzanna sulla didattica a distanza e che non perde un minuto a pensare a chi, così piccolo, abbia in sottofondo l’ombra delle sbarre, il rumore delle porte blindate e una socialità coltivata dai volontari che girano intorno. Ci sono sentimenti che non trovano spazio nelle leggi e che non riescono nemmeno a gocciolare nella discussione pubblica: ci dicono da mesi, mentendo e sapendo di mentire, che la pandemia sarebbe una livella che mette tutti sullo stesso piano e invece ancora una volta siamo di fronte a una punta che affligge i deboli che si ritrovano più deboli e perfino dimenticati.
Se c’è una scala di dolori e di valori che riesce a non curarsi di un bambino detenuto con la madre mentre si srotolano protocolli e divieti dappertutto significa che ci si è indurita la coscienza, da qualche parte, e abbiamo molta confusione nelle priorità. È una storia piccola, certo, ma Edward da solo nel nido di Rebibbia è la fotografia di come sia facile, basta poco e niente, rimanere incastrati nella maglia delle regole.
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