Il terribile 1956, oltre ai “fatti d’Ungheria”, oltre all’elenco parziale ma ufficiale (però a due anni dalla morte) dei delitti di Stalin, e alla guerra del canale di Suez (di cui ricorderò un retroscena cinematografico legato al sogno americano), fu anche l’anno di due terribili disastri. Entrambi angosciosi e collettivi, dal momento che la televisione ormai era entrata nella nostra vita, funzionava, e tutti potevamo vedere quel che accadeva nel mondo. La prima tremenda tragedia fu a Marcinelle in Belgio, dove 136 minatori italiani immigrati morirono gasati dai fumi in una galleria in cui una scintilla elettrica incendiò un serbatoio di combustibile. Non morirono solo loro: i morti in tutto furono 262, ma più della metà erano nostri concittadini del Sud che vivevano nelle periferie delle località minerarie come Bois du Cazier. Erano tremende immagini in bianco e nero: cadaveri – non si vedevano ancora i cadaveri in televisione – e pianto di vedove, pianto di figli impietriti. Era l’Italia che emigrava, che raggranellava franchi, marchi e dollari. Era la stessa Italia che dal Sud andava nella Milano su cui Visconti avrebbe girato Rocco e i suoi fratelli.

Fu allora che ci rendemmo conto, tutti, che il miracolo economico che cominciava a dividere nettamente i ricchi dai poveri, non era lo stesso per tutti. E che mezza Italia aveva la valigia di cartone pronta con lo spago, pronta a prendere treni eterni in cui spargere l’odore delle arance e del cacio, della salsiccia e della pasta al sugo. Era la stessa Italia che ora si trovava in ginocchio impietrita a Marcinelle in mezzo alle bare. L’Italia immigrava e lo faceva in modo umile e modesto. In Francia e in Belgio gli immigrati italiani li chiamavano “les ritails” ed era un termine offensivo. Come in America i “Dagos” (chissà perché). Parole intraducibili. Semplicemente volevano dire “fottuti italiani”. La seconda disgrazia fu l’Andrea Doria. In realtà l’affondamento dell’Andrea Doria avvenne un mese prima di Marcinelle, ma nella catena dei ricordi Marcinelle viene per prima.

Era una nave bellissima, la più bella nave italiana dopo il Rex di Fellini. Era la nave dei sogni modesti delle lettrici di rotocalchi. Fu speronata e morirono in cinquantuno. Una strage in mezzo al mare per ragioni incomprensibili. Fu speronata dal mercantile svedese Stockholm della Swedish American Line, al largo degli Stati Uniti. Il disastro del Titanic del 1912 aveva imposto nuovi standard di sicurezza sui transatlantici e sembra che questi standard abbiano impedito una strage più grave, visto che erano a bordo mille e duecento quarantuno passeggeri e centinaia di uomini dell’equipaggio. Si piegò su un fianco, l’Andrea Doria, e restò così a galla, fotografata dagli aerei e dalle altre navi che vennero al soccorso, prima di affondare.

Era estate piena, io ero a Ostia con i miei perché a quei tempi Ostia era un meraviglioso quartiere romano sul mare, liberty e gentile e la sera si prendeva il gelato in centro e oppure i krapfen che arrivavano dalla cucina con un siluro d’acciaio su una fune. Gli strilloni gridarono: “Paese sera! Edizione straordinaria! È affondata l’Andrea Doria con centinaia di morti”. I morti non erano centinaia ma la notizia era adatta all’estate dei capannelli e dei caffè. Tutti accesero i televisori e i bar erano allora molto forniti di questi grossi oggetti luminosi. Era bello restare ammutoliti davanti alle immagini e scuotere la testa. Il naufragio in sé era un fatto mondano, più che nautico. La guerra aveva lasciato una scia di memorie, racconti e storie tutte più o meno terrificanti e in fondo la triste fine di quella bella nave diventò un argomento di passione nazionalista e di grande sdegno per gli svedesi che ci avevano affondato la più bella barca di casa.

E arriviamo alla guerra di Suez, che fu un grand’evento di cui però allora pochi, anzi nessuno, capì le conseguenze. Immagino che non molti lettori abbiano ben presente, per motivi d’età, chi fosse Gamal Abd el-Nasser: fu il campione del mondo arabo che si ribella agli europei. In realtà si era trattato di una colonizzazione breve, visto che il mondo arabo aveva fatto parte dell’impero Ottomano che fu smantellato nel 1918, insieme all’impero tedesco in Africa e a quello austro-ungarico. L’Egitto era da tempo un protettorato di sua maestà britannica, il cui governo aveva installato un playboy – re Faruk- sul trono del Cairo. Faruk fu mandato a giocare le sue ultime carte al Casinò di Montecarlo da una rivolta di giovani ufficiali cresciuti nel culto del sistema britannico e con una buona preparazione militare. Fu un colpo di Stato poco cruento e fra i giovani ufficiali prevalse Nasser, che era atletico, anzi bello, intelligente, ottimo oratore e discretamente colto.

Soltanto recentemente sono stati resi accessibili documenti riservati del Dipartimento di Stato, da cui si è appreso che il giovane Nasser odiava, sì, gli usurpatori inglesi che insieme ai francesi facevano soldi a palate, facendo pagare il transito sul canale di Suez su cui passavano le petroliere che portavano energia in Gran Bretagna, Francia e nell’intera Europa. Ma amava l’America. Questa è la scoperta. Nasser aveva il suo personale American Dream e questo sogno americano era legato ad un film di Frank Capra: It’s a wonderful life del 1946, in cui un giovane James Stewart interpreta il cittadino George Balley, il bravo ragazzo costretto a difendere sé stesso e la sua famiglia dalle grinfie di un malvagio riccone e che Iddio strappa al suicidio mandandogli un angelo custode senza ali perché in punizione. Nasser era convinto che in quel film abitasse l’intero inconscio dei suoi desideri: la vittoria del bene sul male, la fede in Dio e il misterioso fascino dell’America che alla fine soccorre sempre i deboli e costringe i malvagi ad arretrare. Gli americani, sia durante che dopo la guerra, segretamente detestavano gli inglesi, amorevolmente ricambiati.

Gli americani avevano costretto la Gran Bretagna a mollare l’India ed erano decisi a sbatterli fuori anche dall’Egitto. Quando l’ambasciata americana rese nota la passione del nuovo “raìs” per il sogno americano del film di Capra, fu immediatamente inviata una copia speciale del film a Nasser, sottotitolata in arabo, benché Nasser parlasse un discreto inglese. Non si sa se gli americani abbiano attivamente spinto Nasser a impossessarsi del Canale di Suez con un colpo di mano e dopo aver costretto la guarnigione inglese ad andarsene. Nasser pronunciò un discorso alla radio e in questo discorso introdusse una parola chiave che era il segnale per i suoi: quando la pronunciò alcuni commandos egiziani penetrarono negli uffici della compagnia del canale e ne presero possesso.

Quel che accadde dopo lo abbiamo ricordato nell’articolo precedente. Parigi e Londra decisero di intervenire militarmente, ma avevano bisogno di un pretesto e si rivolsero a Tel Aviv proponendo un accordo: voi israeliani occupate il Sinai e certamente l’esercito egiziano vi attaccherà. A quel punto noi – francesi e inglesi – annunciamo al mondo di aver mandato un corpo di peace keeper, ovvero alcune migliaia di uomini, come forza di interposizione. E lo fecero, sbarcando un vero esercito. Nasser fece per radio un discorso di chiamata alle armi copiato dal celebre discorso di Churchill “We shall fight on the hills… we’ll never surrender” e disse che gli egiziani avrebbero combattuto sui campi e sulle spiagge e mai si sarebbero arresi. Il popolo egiziano sembrò impazzito, in un delirio di patriottismo nazionalista. Fu a quel punto che Nikita Krusciov, il successore di Stalin noto per andare per le spicce, annunciò che avrebbe bombardato con le sue atomiche Londra e Parigi se i loro soldati non si fossero ritirati immediatamente. Anthony Eden, il premier britannico che era stato il ministro degli Esteri di Winston Churchill, cercò di giocare la carta americana rivolgendosi al presidente Eisenhower per chiedergli aiuto. Il vecchio soldato rispose con parole di gelo, più che di fuoco: “Non siamo mai stati informati di questa operazione che disapproviamo totalmente”.

Eisenhower criticò Krusciov per aver minacciato di usare le atomiche e malgrado la guerra fredda, malgrado la situazione drammatica in Ungheria, le due superpotenze si trovavano d’accordo nel costringere i colonialisti europei ad andarsene. Nasser vinse, ma perse il senso delle proporzioni. In preda all’enfasi bellica cominciò prima a dire e poi a credere di aver vinto sul campo di battaglia l’Inghilterra, la Francia e anche Israele che odiava per la sconfitta subita nel 1948. E questa fu la sua rovina. Nasser voleva armi per combattere Israele e gli sembrò naturale chiederle a Washington, a causa del suo sogno americano ispirato da Frank Capra. Ma Washington rispose a brutto muso di non avere alcuna intenzione di dare armi all’Egitto e a quel punto Nasser, un anticomunista islamico molto radicale, compì il gesto impensabile: chiese a Mosca un esercito e finanziamenti per la diga di Assuan. Ottenne entrambi provocando una crisi di nervi a Washington.

Il regolamento dei conti avvenne dodici anni dopo quando Nasser, sicuro di aver messo in piedi la crociata contro Israele con una gigantesca coalizione araba, fu di nuovo battuto sul campo nella guerra dei 6 giorni dall’esercito israeliano e dal generale Moshe Dayan, quello con un occhio bendato, che travolse gli egiziani; e dovettero fermarlo prima che arrivasse al Cairo. Dodici anni dopo. La stella di Nasser smise di brillare e il suo grande sogno americano si dissolse sulle sabbie del Sinai.

 

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.