Il guzzantino
Storia d’Italia, il 1946: dal fascismo ai coriandoli la nascita della Repubblica
Volete capire davvero cosa sta succedendo? Perché siamo a questo punto e a che punto siamo? Volete sapere chi siete, o chi potevate essere, o chi non sarete mai, e chi erano i vostri genitori? Non ci riuscirete se non ripassate la storia. Se non studiate il passato, le radici. E allora abbiamo chiesto a Paolo Guzzanti di raccontarci la storia della Repubblica. Da quel gennaio del ‘46, quando la Repubblica nasceva e lui doveva ancora compiere sei anni, fino ad oggi, che la Repubblica è diventata seconda o terza o quarta, e lui è arrivato a ottanta. Lo farà con un articolo a settimana, per settanta settimane, correndo sul filo della sua memoria, e degli studi che ha fatto, e della sua attività di giornalista. Lo farà con la sua penna e le sue idee. Buona lettura.
Piero Sansonetti
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Il 1946 fu l’anno in cui nacque la Repubblica. Infatti, per imitare l’inizio di Pinocchio, cominceremo col chiedere: “C’era una volta?”. “Una repubblica! “ diranno i piccoli lettori. No, cari ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un re. Ma molto piccolo. Lo chiamavano “Sciaboletta” e per lui avevano dovuto abbassare di parecchi centimetri l’altezza minima alla visita di leva. Era stato lui a chiamare al governo Benito Mussolini nel 1922 quando molti gli consigliavano invece di farlo arrestare ed era stato sempre lui a farlo arrestare una settimana dopo il primo bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 organizzando un colpetto di Stato perfettamente costituzionale. Il fascismo è stata l’unica dittatura della Storia abbattuta con un voto di sfiducia dopo “ampio e approfondito dibattito” nel Gran Consiglio del Fascismo che era un organo costituzionale.
Quando, all’alba del 25 luglio, il Duce tornò a Villa Torlonia la moglie Rachele era sulla soglia in ansia e gli chiese: «Mo’ Ben, com’è andata?». E lui: «Mi hanno messo in minoranza e hanno ridato i poteri al re». Rachele si infuriò: «Ma avresti dovuto fare come Hitler, ti portavi un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti». Mussolini era ancora ottimista: «Oggi vado dal re e sistemo tutto» rispose esausto. Invece era stato il re a sistemare tutto: arrivato a Villa Savoia con le ghette e il cappello, Mussolini fu fatto accomodare nel salottino, il suo autista e la scorta furono arrestati, il re gli disse che l’aveva sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio ma che non doveva preoccuparsi per la sua incolumità. Poi lo accompagnò all’ambulanza che lo aspettava piena di carabinieri che però non sapevano che Mussolini era agli arresti.
Ne seguì una peregrinazione comica finché il capo del fascismo fu sistemato in albergo isolato di Campo Imperatore dove fu tentato dall’idea del suicidio con la piccola pistola che gli avevano lasciato e fu liberato da un commando di nazisti forsennati guidati da Otto Skorzeny al comando di alcuni alianti.
Quel piccolo re aveva visto che per lui e casa Savoia tirava un’aria pessima, ci sarebbe stato un referendum e preferì andare in esilio lasciando suo figlio Umberto che fu re per un solo mese e detto “Il Re di Maggio”. Fu indetto il referendum per il 2 giugno del 1946 e con il referendum gli italiani e per la prima volta le italiane che non avevano mai votato ai tempi del Regno furono chiamati ad eleggere il primo Parlamento come Assemblea Costituente e dire se volevano restare un regno o diventare una Repubblica. Le forze maggiori – socialisti (che erano più numerosi dei comunisti) i comunisti, larga parte dei cattolici molti fascisti che votavano Uomo Qualunque o altre formazioni minori – erano repubblicane. Ma quando cominciò lo spoglio delle schede al ministero degli Interni si accorsero che i voti per il re superavano di gran lunga quelli per la Repubblica e scoppiò il panico.
Il ministro Romita decise di non dir nulla finché lo spoglio non fosse finito e fu una faccenda lunghissima e controversa. Il Sud aveva votato in massa per il re e il Nord in massa per la Repubblica. Ci furono accuse di brogli e ancora oggi se ne parla anche perché qualcuno ebbe la discutibile idea di bruciare le schede votate sicché non si poté fare una riconta. Il presidente della Cassazione anziché annunciare la vittoria della Repubblica disse che si sarebbero prima discussi i ricorsi e si rischiò la guerra civile. Il nuovo re-luogotenente Umberto Secondo, ad urne aperte, scoprì di essere ancora il re e fece sapere che se non si fosse risolta la questione immediatamente avrebbe nominato un suo governo, mentre era presidente del consiglio Alcide De Gasperi, il leader democristiano trentino che per anni era stato un deputato dell’Imperial Regio Governo a Vienna. La minaccia era seria: se il “Re di maggio” faceva un governo formalmente legittimo ci sarebbero stati due governi e probabilmente la guerra civile. De Gasperi prese una decisione molto audace: si proclamò Capo provvisorio dello Stato al posto del Re luogotenente che preferì salire su un piccolo aereo e partire dopo aver sventolato il suo cappello con aria mesta davanti a una folla di monarchici piangenti. Casa Savoia aveva tentato di giocare a carta americana: Real Casa chiese alla Casa Bianca di essere sostenuta contro il “pericolo sovietico”. Ma avevano sbagliato i conti: alla Casa Bianca, dove Harry Truman era succeduto a Franklin Delano Roosevelt, erano tutti repubblicani, odiavano tutti i re e specialmente quelli italiani. Chi era molto seccato per l’esito del referendum fu Winston Churchill che seguitava a sognare un mondo di imperi e di teste coronate.
La massa degli elettori italiani aveva votato per i tre grandi partiti: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con più di otto milioni di voti, il Partito socialista di unità proletaria di Pietro Nenni con quattro milioni e 758 mila voti e il Partito comunista di Palmiro Togliatti (sotto il 20 per cento, superato dai socialisti quasi al 21) con poco meno di quattro milioni e mezzo. I tre quarti degli italiani avevano votato i grandi partiti e fra questi c’era una forte maggioranza di sinistra perché socialisti e comunisti formavano ancora una unione “socialcomunista” e si parlava spesso di una possibile fusione. I democristiani avevano la maggioranza nelle aree che oggi sono della Lega, i comunisti nelle regioni “rosse” (che durante il fascismo erano state nerissime) e i socialisti con uno spettro un po’ più largo. Che Italia era? Posso dire quel che ricordo da bambino: una sovreccitazione frenetica nelle strade, tutti correvano in bicicletta, urlavano, formavano crocicchi, sembra la celebrazione del “Free Speach” dei parchi londinesi. Preti assatanati contro i comunisti, rivoluzionari, casalinghe, operai, professori, tutti trovavano una cassetta della verdura su cui salire e parlare al popolo. Ma pochi sanno che durante il Regno d’Italia e fino alla fine della Grande Guerra nel 1918, la democrazia italiana era riservata per censo a una parte della borghesia: soltanto chi paga le tasse ha diritto di rappresentanza per decidere come spenderle. Con la fine della Grande Guerra fu concesso benignamente il voto a tutti gli uomini senza distinzione di censo.
E così il Parlamento si riempì di un caleidoscopio di partitini che contribuirono allo spappolamento della vecchia democrazia paternalistica. Nessuno usava il deodorante, non esisteva lo shampoo e i capelli erano lavati con saponi e bicarbonato. Tutti bevevano quantità insensate di pessimo vino a tavola, bambini compresi, e infuriava una dieta della pasta e dell’ingrassamento dopo gli stenti della guerra. Si aspettava ancora il ritorno di molti prigionieri di guerra che non sarebbero più tornati e mio padre vedeva in sogno il suo compagno di banco inghiottito dalle nevi della Russia. Era un’Italia a coriandoli: non votarono quelli dell’Alto Adige ancora sotto controllo alleato, ma votarono le città di Tenda e Oneglia che diventarono francesi. Roma era piena di soldati e la polizia vestiva con l’elmetto e viaggiava su jeep con la cappotta e si chiamava “la celere”, antisommossa perché le sommosse erano sempre nell’aria. Era ancora l’Italia del Cln (Comitato di liberazione nazionale di tutti gli antifascisti) ma era già l’Italia spaccata dalla guerra fredda. Tuttavia, si sapeva che l’Italia, come la Grecia, era stata assegnata all’Occidente e Stalin non gradiva colpi di mano. Erano gli anni di “Napoli milionaria” di Eduardo e della “Tammurriata Nera”, le molte nascite di bambini colorati presi in custodia da suore terribili come quelle di Fellini.
Era fatta: la guerra era finita davvero, la democrazia era cominciata davvero, i conti sarebbero stati regolati nel 1948 con le vere elezioni e tutto andava avanti con molta “borsa nera” (il mercato parallelo e l’arte di arrangiarsi, che era già nel Dna. Entusiasmi e disperazioni si affacciavano in ogni famiglia e paese, il mondo si spaccava e gli ultimi nazisti tedeschi avevano scelto l’Argentina come nuova patria provvisoria. Dall’America Latina un napoletano scrive “Munastero ‘e Santa Chiara” che descriveva il crollo morale ma tutti dicevano che bisogna guardare avanti, girare pagina, perché ormai chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. Il che non era vero.
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