Fu l’anno che determinò il futuro. Nel 1947 tutti furono obbligati a mettere le carte in tavola e dire da che parte stavano. La guerra fredda era scoppiata e nessuno, ma proprio nessuno, sapeva che non sarebbe diventata calda. Al contrario: ricordo che nel 1947 mia madre affettava e metteva sotto sale un prosciutto di campagna da cui saltavano fuori dei vermi. non esisteva lo schifo. Tutto era buono. scatolette, tonno, fagioli, si faceva il sapone in casa con una puzza orrenda di pentoloni pieni di grasso animale. Un tappeto di patate sotto il letto. Taniche di petrolio per i lumi bellissimi pieni di nappe, nastrini e vetri colorati che mio padre aveva comperato perché la corrente saltava. Cocomero e burro sotto un filo d’acqua nel lavello di marmo della cucina. Estati torride senza un filo di vento. Freddo invernale con i geloni alle dita, lo scaldino nel letto con la brace, io mi portavo sotto le coperte di contrabbando il nostro gattone nero chiamato Fascista perché aveva una specie di M bianca sul petto. L’aveva portato un ingegnere amico di mio padre che frequentava il papa sostenendo che il micio era figlio della gatta di Pio XII, Pacelli, quello che aveva dischiuso le ali sulle macerie del bombardamento del 19 luglio al Tiburtino.
Il fratello di mia madre era diventato comunista e girava in bici e con mio padre discutevano per ore sulla porta di casa, il secchio dell’immondizia foderato di carta di giornale. Le voci alla radio erano gracchianti perché il tono ufficiale era molto mussoliniano, a destra come a sinistra. Passato Capodanno, il giornale radio avvertì che il presidente del Consiglio stava volando verso gli Stati Uniti ed era la prima volta che De Gasperi usciva dall’Italia. L’espressione “Presidente del consiglio dei ministri” era stata scelta e usata solo in Italia al posto di primo ministro o capo del governo, per scongiurare l’arrivo dell’uomo forte. Il 1947 era l’anno in cui sarebbe stata votata la nuova Costituzione e quello in cui l’Italia avrebbe firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici perdendo l’Istria con tutti gli istriani, fuggiti o infoibati, di cui nessuno voleva più sentir parlare. Trieste era tagliata in due, mezza americana e mezza comunista, Zona A, Zona B, e la faccenda sarebbe andata avanti per un pezzo. E poi sarebbe stato l’anno del Piano Marshall, dal nome del Segretario di Stato americano George Marshall, annunciato con un discorso all’Università di Harvard. L’America capovolgeva le tradizioni: i vincitori avrebbero rimesso in piedi i vinti a proprie spese, per evitare quel che era accaduto fra le due guerre mondiali. Ricordo, da ragazzino, un mondo di gente molto confusa, piena di ira e di frustrazione e tutti avevano voglia di mettere le mani addosso a qualcun altro.
De Gasperi non era stato invitato dalla Casa Bianca ma dalla rivista Time. L’Italia non era popolare: era un Paese vinto e detestato. I francesi ci odiavano per averli “pugnalati come Maramaldo”. Gli inglesi ci odiavano per la guerra e ci odiavano i greci, gli slavi, i tedeschi e i russi perché avevamo mandato corpi di spedizione in casa loro. La guerra franco-prussiana del 1870 aveva lasciato i semi avvelenati della Prima Guerra Mondiale e la pace di Versailles aveva fatto schiudere le uova di serpente della seconda. Ora ci trovavamo all’inizio di una Terza Guerra: l’Occidente a guida americana e capitalista contro l’Oriente a guida russa e comunista. Scompariva l’Impero britannico, collassato per decisione americana. Roosevelt aveva avvertito gli inglesi: vi aiutiamo, ma voi dovete smontare tutta la baracca imperiale. E il disfacimento partì dall’India. Da un punto di vista esistenziale – l’esistenzialismo fioriva a Parigi – eravamo senza identità e temevamo la morte atomica, l’ultima novità prodotta a Hiroshima. Si seppe in quell’anno del diario di Anna Frank: la dimensione della Shoà era ancora non chiara. L’America accettava di riceverci, ma senza trombe e tappeti rossi. Quelli sarebbero venuti dopo. La delegazione che arrivò a Washington comprendeva il direttore della Banca d’Itala Domenico Menichella, Guido Carli direttore dell’Ufficio Cambi, il ministro del Commercio con l’Estero Pietro Campilli, su un affaticato quadrimotore Skymaster, tutti imbragati con i paracadute, salvo Menichella che era afflitto da un’enorme pancia. Due giorni di volo.
De Gasperi si era affidato all’ambasciatore Alberto Tarchiani che conosceva bene l’America e che lo portò dal nuovo presidente Truman e che era diventato il mastino della guerra fredda. C’era stato il discorso di Winston Churchill all’università americana di Fulton in cui per la prima volta era stata inaugurata l’espressione iron courtain la “cortina di ferro” di ferro, che tagliava anche Trieste, città contesa agli jugoslavi del maresciallo Tito. Gli americani dettero a De Gasperi un assegno da cinquanta milioni di dollari come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dall’Italia durante la guerra. Ma una cosa doveva esser chiara: i comunisti, dovevano andare fuori dal governo. Era scoppiato il caso greco. I comunisti greci, contro il divieto di Stalin, avevano cominciato una rivoluzione destinata ad essere repressa dagli inglesi senza che i sovietici muovessero un dito. Durante la visita di De Gasperi, il segretario di Stato James Byrnes si dimise perché non condivideva la nuova politica antisovietica. Lo sostituiva George Marshall, esperto mediatore fra comunisti e nazionalisti cinesi, l’uomo che avrebbe legato il suo nome al famoso “Piano”. L’Italia ottenne un finanziamento ulteriore di 100 milioni di dollari dalla Export Import Bank subito dopo il rientro di De Gasperi. Pietro Nenni, ministro degli Esteri e capo dei socialisti che era andato ad accoglierlo all’aeroporto, annotò sul suo diario che De Gasperi era «totalmente cambiato».
Dietro il successo di quel primo incontro aveva lavorato come tessitore Francis Spellman, di 47 anni, che era stato creato cardinale l’anno prima da Pio XII. Francis Joseph Spellman, nato nel 1889 in Massachusetts, aveva fatto la spola fra l’ambasciata americana e lo studio del papa, per poi finire le sue serate nelle osterie di Frascati con il suo autista Francesco Lamonaca, che era il mio prozio di Forio d’Ischia. Questo mitico Zio Ciccio, leggendario narratore della Prima guerra mondiale vista con occhi napoletani, era diventato l’autista dell’ambasciata americana e del cardinale che lui chiamava Spellmànne e che gli raccontava nei dettagli, dopo aver raggiunto il necessario livello etilico, delle istruzioni ricevute dal papa per l’incontro alla Casa Bianca di De Gasperi. Il viaggio fu un successo. Ma fu subito chiaro che l’Alcide, era deciso a sbattere fuori i comunisti e i loro alleati. i comunisti devono uscire dai governi di coalizione in Occidente. E così fu. Pochi giorni dopo, Nenni si dimise da ministro degli Esteri e il suo partito si spaccava per la la scissione socialista di Palazzo Barberini, quando Giuseppe Saragat (futuro presidente della Repubblica anche lui come Spellman molto amante del vino) ruppe con il Psiup, fondando il Psli, poi Psdi, partito socialdemocratico italiano, pronto a governare con una Dc filoamericana e antisovietica.
Fra gli scissionisti, a sorpresa, anche Anna Kuliscioff, rivoluzionaria comunista ebrea ucraina che in Italia aveva diretto il quotidiano socialista Avanti! con Benito Mussolini (di cui fu brevemente l’amante) e che poi era scappata in Unione Sovietica entrando nel gruppo dirigente leninista. Da cui poi era fuggita orripilata. E arrivò il Piano Marshall. Poiché tutti convenivano che l’avvento di Hitler fosse stato provocato dalle disumane condizioni in cui il popolo tedesco fu tenuto dai vincitori della Grande Guerra, gli americani decisero non di chiedere riparazioni e danni, ma al contrario di pagare di tasca loro il finanziamento economico della rinascita dell’intera Europa, Est ed Ovest. Qualcosa di inimmaginabilmente grande, perché comprendeva anche l’Unione Sovietica dei Paesi dell’Est, non ancora sotto dittatura comunista, come la Cecoslovacchia. Ma Stalin non ne volle sapere ed ordino a tutti gli Stati e partiti comunisti di opporsi al piano Marshall, malgrado le proteste di alcuni governi. In Italia il Pci si allineò con Mosca.
Gli inglesi, seccati con gli americani che giocavano da padroni, resero noto il loro ritiro dalla Grecia in piena guerra civile e Truman accolse la notizia come un dato di fatti: nasceva la “dottrina Truman”, che delegava il comando all’imperatore d’occidente in Pennsylvania Avenue. Stalin era furioso: voleva che la Germania pagasse le riparazioni dovute, ma Molotov (“Martello”, il ministro degli Esteri di Stalin, lo stesso che aveva firmato con i nazisti il patto del 1939) fu sconfitto. Truman mise mano al portafoglio e sborsò 250 milioni per la Grecia e 150 per la Turchia, da proteggere da sovietici. In Italia Togliatti, con un colpaccio a sorpresa, ruppe l’unità delle sinistre e votò alla Costituente a favore dell’articolo 7 della Costituzione che avallava i patti fra Mussolini e Vaticano, per far breccia nei cattolici. Il primo maggio, la strage del bandito Salvatore Giuliano a Portella Della Ginestra. I manifestanti accolti dal fuoco delle mitragliatrici che falciano la folla con 800 colpi: 11 morti e 71 feriti. Giuliano ha da poco ricevuto i gradi di colonnello e la bandiera di combattimento dal congresso segreto dei separatisti che dicono di voler portare la Sicilia nella Confederazione degli Stati Uniti. Sarà una vicenda loschissima, che finirà con Giuliano ammazzato da suo cognato Gaspare Pisciotta in un finto conflitto a fuoco e con Pisciotta ammazzato con un caffè corretto, che produrrà il noto sketch “Venga a prendere un caffè da noi”. In Italia una crisi di governo a freddo estromette i comunisti, così come accade in Francia.
A luglio il Comitato centrale del Pci dichiara impossibile proseguire nella “democrazia progressiva” ma Togliatti promette un atteggiamento moderato per non rompere l’unità nazionale antifascista. Il 7 settembre in un comizio a Parma Palmiro Togliatti allude a una forza armata del Pci di 30 mila uomini e il discorso viene interpretato come una minaccia al governo e improvvisamente scoppia una sorta di crisi insurrezionale alimentata dal maresciallo Tito e a settembre l’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani si fa ricevere dall’assistente del segretario di Stato per avvertirlo della possibilità di una insurrezione sostenuta dall’Urss. Comincia così la vera guerra fredda italiana. Ad ottobre nasce la Cia che è succeduta all’Oss: giudica le forze armate italiane sufficienti per controllare una insurrezione, ma non per far fronte a un intervento jugoslavo.
Monsignor Montini, il futuro Paolo VI e che sotto Pio XII fu un eccellente spy-master confermò al rappresentante diplomatico americano del presidente Truman l’appoggio morale della Santa Sede a un eventuale contro i comunisti. Il 27 novembre arriva al Viminale l’uomo duro dell’anticomunismo: Mario Scelba, in sostituzione del prefetto di Milano Ettore Troilo ex partigiano accreditato a sinistra. Gian Carlo Pajetta alla testa di un corteo partigiano occupò la prefettura e altri edifici pubblici milanesi. Togliatti e De Gasperi sdrammatizzarono la crisi e la disinnescarono. Era nato di fatto un primo compromesso storico fra la Dcfiloamericane e il Pci filosovietico. Una guerra fredda fatta di molte parole e larvate minacce sarebbe stata tollerata e considerata accettabile, dai tempi. Ma nessuno voleva sfracelli.
(2 – Continua)