Edilizia, urbanistica, ma anche reati di borsa e reati tributari. Intervistando giuristi, magistrati, avvocati e docenti universitari il Riformista ha tracciato una sorta di mappa dei reati che potrebbero essere puniti con sanzioni amministrative o, comunque, perseguiti seguendo un iter diverso da quello penale. In una parola, depenalizzazione. È tra le soluzioni indicate come possibili rimedi all’eccessivo carico della giustizia, all’ingolfamento dei tribunali, all’aumento di reati e di faldoni che poi finiscono per risolversi, nel 60 per cento dei casi, in un nulla di fatto perché i processi non arrivano a sentenza, perché non arrivano a sentenza di condanna o perché, quando pure c’è condanna, si prevede una pena sospesa, che non porta in carcere.
E allora perché continuare a seguire, per reati cosiddetti bagatellari e comunque non gravissimi, un doppio binario giudiziario, quello penale e quello amministrativo? Perché non usare la sola leva amministrativa per far valere la legge, lasciando che le aule di tribunale siano affollate solo da imputati accusati di reati gravi per cui non si può rinunciare a un’inchiesta penale e al dibattimento che ne è la diretta conseguenza in presenza di validi indizi? Gli interrogativi sono destinati a rimanere con il punto di domanda in attesa che la politica prenda coraggio per una riforma ampia. E intanto aumentano le storie di imputati, soprattutto fra gli imprenditori, che finiscono nelle maglie della giustizia penale per reati tributari o edilizi, che subiscono sequestri preventivi e talvolta anche danni. Perché, si sa, i tempi della giustizia possono essere anche molto, molto lunghi. Il Riformista ha raccolto quattro storie di imprenditori che, a Napoli e nel resto della Campania, sono l’esempio di come una giustizia lenta e una legislazione sovrabbondante possano condizionare l’economia, ostacolando o addirittura fermando, la crescita di un’impresa.
Falso ideologico: Prima condanna, poi assoluzione
Ha affrontato anni di processo per arrivare in appello a una sentenza di assoluzione che ha completamente ribaltato la tesi dell’accusa. I fatti riguardano un imprenditore di Roccagloriosa, nel Cilento, e la sentenza risale ad alcuni mesi fa e ha occupato le pagine delle cronache locali. La storia è una delle tante storie di imprenditori che hanno dovuto affrontare un lungo processo, con tutte le possibili ricadute sulla propria attività, prima di arrivare a una sentenza che smonta il castello accusatorio e definisce l’intera vicenda giudiziaria con un verdetto di assoluzione. In primo grado l’imprenditore era stato condannato a sei mesi di reclusione. L’accusa riguardava il presunto reato di falso ideologico in atto pubblico per false dichiarazioni in un’istanza protocollata al Comune per avere prestazioni sociali agevolate. In appello, invece, è arrivata l’assoluzione.
I Pm: “Locale abusivo”, ma il proprietario è il Comune
È una storia singolare, particolare, che sembra addirittura surreale. È una storia che da circa un anno e mezzo pende dinanzi alla giustizia sia penale sia civile. È la storia di un imprenditore che decide di investire in una attività di ristorazione in uno dei luoghi più belli e suggestivi di Napoli, a Marechiaro. Acquista la licenza e avvia i lavori di ristrutturazione. Ma proprio in quel momento comincia per lui un incubo giudiziario. Viene indagato per reati di abusi edilizi perché secondo l’accusa l’immobile è abusivo. Eppure è un immobile che risulta appartenere al Comune di Napoli, tanto che l’amministrazione comunale richiede il canone di affitto. Succede, quindi, che l’imprenditore finisce anche sotto processo civile per gli affitti rivendicati dal Comune. E da un anno e mezzo attende una risposta dalla giustizia.
Sotto inchiesta per le normative contraddittorie
Una pedana all’esterno del locale e una normativa che, come spesso accade, si presta a più interpretazioni. Parte da qui la storia di un imprenditore costretto a subire lo stop di un mese per la sua attività di bar e ristorazione nel cuore di Napoli e affrontare un procedimento per occupazione di suolo pubblico, salvo poi ottenere il dissequestro con la pronuncia di un giudice che ha ritenuto illegittimo il dissequestro. Tutto accade all’indomani dell’avvio della fase 2, a maggio. Dopo il lockdown legato alla pandemia, l’imprenditore prova a rimettere in moto l’attività. C’è un decreto emergenziale che consente l’occupazione di suolo per allestire tavoli e sedie all’aperto. Ma c’è anche una normativa a livello locale e nazionale che crea confusione sulla necessità o meno del parere della Sovrintendenza per l’installazione di una pedana. Tanto basta per far azionare la pesante macchina della giustizia penale.
Versa l’Iva in ritardo: 600mila euro sequestrati
Seicentomila euro di Iva non versata nei tempi previsti dalla legge e per un imprenditore di Maddaloni, impegnato nel settore dei trasporti e con cento dipendenti, scatta la segnalazione dell’Agenzia delle Entrate. Inizia quindi l’iter previsto per questi casi e l’imprenditore definisce la sua posizione con un piano di rateizzazione che prevede il pagamento del debito in tranche da 125mila euro. Ma siccome questa è una delle tante storie in cui la giustizia penale si accavalla a quella tributaria, accade che, nonostante il piano di raitezzazione che portando all’estinzione del debito dovrebbe portare anche all’estinzione del reato, l’imprenditore finisce al centro di un’inchiesta penale subendo così il sequestro per equivalente di 600mila euro. Un duro colpo per una piccola impresa che aveva già avviato il pagamento del debito. E per il Riesame bisognerà attendere la ripresa dell’attività dei giudici dopo lo stop feriale.