Per chi come me si occupa di fare informazione dal carcere, dando voce alle persone detenute e ai loro famigliari, ma anche alle vittime di reati, il tema dell’ergastolo resta uno dei più spinosi. Quando ci sembra di aver compiuto un passo avanti nel far crescere nella società la consapevolezza che non è la pena cattiva quella che ci rende più sicuri, e che uno Stato che sappia esercitare una giustizia mite è più forte di uno Stato che si mette al livello del criminale e risponde alla violenza con pene disumane, basta un fatto di cronaca nera particolarmente efferato per far tornare più forte che mai la voglia di ergastolo. Il tema di quale sia la pena giusta ovviamente è delicato, anche perché da buona parte della società proviene pressante la richiesta di pene più alte, spesso fatta in nome delle vittime.

Ma ci sono vittime che non vogliono essere usate per giustificare odio e “vendetta di Stato”. Penso alle parole di Gino Cecchettin quando ha incontrato nel carcere di Padova le persone detenute e ha detto loro: “Nel momento in cui nella nostra società iniettiamo odio possiamo ricevere solo odio. Ma essere cattivo cosa aggiungerebbe di bello nella mia vita? Essere cattivo, arrabbiato, sarebbe umano, ma mi renderebbe peggiore come essere umano. (…) Se devo spendere un pezzo della mia vita, non lo farò senz’altro per chiedere pene più severe, ma lo farò per far sì che non ci sia un altro Filippo che faccia quello che ha fatto lui”. E penso ad Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, che ci accompagna con pazienza a capire che lo Stato non può usare, per punire, gli stessi strumenti del criminale: “Io penso che non c’è nessuna persona che noi vogliamo che si perda; il cuore della nostra Costituzione è la preziosità di ogni persona e il fatto che ogni persona deve giocare il suo ruolo perché tutti possiamo esistere davvero come Paese”.

“La speranza che non muore”. Riflessioni di una figlia sull’Ergastolo ostativo

di Eva R., figlia di un ergastolano

Ho sempre pensato che ogni vita sia un racconto unico, un intreccio complesso di scelte, errori e possibilità di redenzione. La mia storia, però, è segnata da un’assenza che pesa come un macigno, quella di un padre che ho perso, non per la morte, ma per una condanna: l’ergastolo ostativo. Mio padre è stato incarcerato quando avevo solo due anni, e da allora il carcere è diventato una parte oscura ma inevitabile della mia quotidianità. (…) Visitare mio padre in carcere è stato per anni un rito doloroso. Ricordo la trafila per entrare: i controlli, le porte che si chiudevano dietro di noi, il rumore metallico delle serrature. Ricordo l’ansia di quei momenti, ma anche la gioia di vederlo, di abbracciarlo, di sentire la sua voce. Era sempre sorridente, sempre attento a non farmi percepire il peso della sua condizione, ma io lo vedevo nei suoi occhi: la tristezza, la frustrazione, la paura di non essere abbastanza presente nella mia vita. Nonostante tutto, mio padre è riuscito a darmi molto, anche da dietro le sbarre. Oggi sono una farmacista, una professione che amo e che ho scelto anche grazie agli insegnamenti di mio padre. Lui mi ha sempre detto che il sapere è la chiave per affrontare il mondo, che la cultura può salvarci. È stato un padre amorevole, nonostante la distanza, e mi ha trasmesso valori che porto con me ogni giorno. Eppure, non posso fare a meno di sentire il peso dell’ergastolo ostativo nella mia vita. Per quanto io abbia costruito un’esistenza solida e felice, c’è sempre un vuoto, una mancanza che non posso colmare. Vorrei che mio padre fosse qui, non solo per me, ma per vivere la sua seconda possibilità, per dimostrare che è cambiato, che non è più l’uomo che era. So che molti faticano a credere che un uomo legato alla criminalità organizzata possa cambiare. Ma io credo nelle persone, credo che il cambiamento sia possibile, e mio padre ne è la prova vivente. Ha trascorso anni a riflettere, a studiare, a lavorare su sé stesso. Si vergogna profondamente del suo passato, ha interrotto ogni legame con la criminalità, e oggi è un uomo nuovo. E allora mi chiedo: perché negargli la possibilità di dimostrarlo? Perché lo Stato deve infliggere una pena che non lascia spazio alla speranza, che non permette a chi ha cambiato vita di contribuire al bene comune? L’ergastolo ostativo è, nella sua essenza, una pena di morte mascherata. Non c’è fine, non c’è possibilità concreta di redenzione. È una sentenza che punisce non solo il condannato, ma anche le persone che lo amano, che vivono nell’attesa di un futuro che non arriva mai. L’articolo 27 della nostra Costituzione non deve rimanere solo parole su un foglio. Deve essere applicato, realizzato, vissuto. Io continuerò a sperare, a credere che un giorno mio padre potrà tornare a casa. Continuo a credere in un’Italia giusta, in un sistema che sappia essere umano, che non si limiti a punire, ma che sappia costruire, ricostruire, e dare una possibilità a chi se la merita.

“Sono 32 Natali che aspetto mio padre”

di Francesca R., figlia di un ergastolano

Sono Francesca, la figlia di un detenuto condannato all’ergastolo e da 33 anni aspetto che ritorni a casa. Non nascondo che purtroppo ho perso le speranze. Quando mio padre è stato arrestato io avevo solo 15 mesi, non mi ricordo mio padre a casa perché ero troppo piccola. Ora sono mamma e desideravo tanto che almeno adesso potesse tornare a casa per poter far il nonno, visto che il papà non l’ha potuto fare. Desideravo tanto che tutto quello che ha perso come padre potesse recuperarlo con i miei figli. Questo dovrebbe essere il periodo più bello dell’anno, ma purtroppo per me e per tutti i figli dei detenuti, dietro dicembre – oltre alle luci, i colori e soprattutto i regali – c’è tanta tristezza, sofferenza e mancanza. Quella mancanza che si sente ancora di più allo scoccare della mezzanotte del primo dell’anno, quando tutti si abbracciano e si fanno gli auguri per un nuovo anno. Io, oltre a non poterlo abbracciare e augurargli buon anno, dico tra me e me: “È un altro anno che se ne va senza di te, mio caro papà”. Sono 32 Natali che ti aspetto. Papà, pensavamo di avercela fatta 2 anni fa con quei pochi permessi che ti avevano dato. E invece ci hanno illuso perché purtroppo ti hanno trasferito e poi negato i permessi; tu ti sei sempre comportato benissimo in ogni permesso ed è proprio per questa illusione e soprattutto delusione che mi sento vuota. Mi sento più triste che mai perché penso che piano piano, un passo alla volta, potevamo recuperare almeno un minimo, ma invece siamo tornati indietro (anzi, peggio) perché ti hanno trasferito in un carcere ancora più lontano e difficile da raggiungere visto che è in un’isola, e proprio per questo ancora non conosci – perché non lo hai mai incontrato in presenza – il mio piccolo Tommasino, il tuo ultimo nipotino. Aspettavo un permesso per fartelo conoscere di presenza e invece te l’hanno negato e dovrò portartelo in carcere. Mi dispiace moltissimo soprattutto per te per la delusione che provi, perché avevi fatto un percorso soprattutto di cambiamento e la cosa più bella è che eri cambiato davvero. Mi dispiace per l’ennesimo Natale che passi senza la tua famiglia, senza il calore dei tuoi amati nipotini. Non so se mai ci sarà l’occasione di passarlo insieme. Purtroppo ho perso la speranza ma, come ogni anno, io sotto l’albero vorrei il mio regalo più prezioso che aspetto da tanto tempo ormai.