Fu una strage, tra le più sanguinose nella storia degli Usa dopo la guerra civile. Fu una strage gratuita, facilmente evitabile. Nel 1971 rese il nome del carcere di Attica, vicino a Buffalo, nello Stato di New York, sinistramente famoso in tutto il mondo: uno di quegli eventi simbolo che segnarono gli anni roventi a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 , come la strage di My Lai in Vietnam o quella della Kent State University. Nel pianeta carcere americano Attica era una delle piazze peggiori. Era uno dei penitenziari più sovrappopolati degli Usa: avrebbe dovuto ospitare 1200 detenuti, ce n’erano 2.243. Dal 1931 non era mai stato ristrutturato: caldissimo d’estate, gelido d’inverno. Era anche una delle prigioni con le regole più sadiche. Le condizioni igieniche erano disastrose, quelle sanitarie peggiori. I prigionieri restavano in cella tra le 14 e le 16 ore al giorno. La posta era regolarmente controllata e letta, le restrizioni sull’accesso ai libri draconiane, i colloqui si potevano svolgere solo con il vetro divisorio, la libertà religiosa negata nonostante la presenza di molti detenuti aderenti ai Black Muslims.

Le punizioni e il ricorso all’isolamento erano frequenti, probabilmente in seguito a un mix di razzismo e di incompetenza da parte delle guardie carcerarie. Il 54% dei detenuti di Attica era afro-americano, il 9% latino. Le guardie invece erano tutte bianche ed erano state assunte senza alcuna preparazione, senza nessun addestramento che le mettesse in grado di governare un carcere con mezzi diversi dalla pura repressione. All’inizio dell’estate 1971 i detenuti presentarono una lista chiedendo 28 riforme. La reazione della direzione fu mandare in cella d’isolamento chiunque fosse trovato in possesso del manifesto e inasprire ulteriormente il regime carcerario. La situazione iniziò a precipitare dopo l’uccisione di George Jackson, il detenuto che era diventato leader e simbolo dell’intero movimento nelle carceri, il 21 agosto. Il giorno dopo i detenuti sfoggiarono un bracciale nero in segno di lutto e organizzarono uno sciopero della fame per protesta. Da quel momento la tensione continuò a montare giorno dopo giorno. Le guardie dichiaravano apertamente la loro paura di una rivolta, segnalavano preoccupate che per la prima volta la divisione razziale tra i prigionieri, che impediva un fronte comune ed era uno strumento di controllo essenziale, stava cedendo.

La scintilla che provocò l’esplosione fu una rissa tra detenuti, l’8 settembre, in cui fu coinvolta e atterrata con un pugno una guardia. La sera le guardie provarono a portare in isolamento il detenuto che aveva colpito il collega. I detenuti dello stesso braccio reagirono, ci scappò un altro pugno che raggiunse una delle guardie, il responsabile fu segregato in cella. La mattina seguente, 9 settembre, i detenuti del braccio trovarono i cancelli chiusi. Si convinsero, erroneamente, che fossero state decise punizioni severe per i fatti della sera precedente. Si ribellarono. L’incendio si estese rapidamente. Con armi di fortuna i rivoltosi, 1281 detenuti su poco di 2.200, si impadronirono dell’intero carcere, poi ripiegarono mantenendo il controllo di circa metà dell’edificio, inclusa la stanza di controllo centrale, chiamata “Times Square”, e presero in ostaggio 39 guardie.

Era inevitabile che nella fase iniziale della rivolta ci fossero delle violenze. Alcune guardie vennero picchiate: una di queste, William Quinn, fu precipitato dalla balaustra, morì in ospedale due giorni dopo. Tre detenuti bianchi, sospettati di essere spie della direzione, furono uccisi. Ma le violenze contro le guardie furono molto più contenute del prevedibile. Subito dopo la prima e caotica fase, gli stessi detenuti difesero gli ostaggi dai prigionieri più esagitati e organizzarono una squadra di sicurezza incaricata tra l’altro proprio di garantire l’incolumità degli ostaggi e degli osservatori esterni a cui i rivoltosi stessi avevano chiesto di seguire la vicenda: molti giornalisti, alcuni avvocati, leader politici neri come il Black Muslim Louis Farrakhan, che declinò l’invito, o il fondatore del Black Panther Party Bobby Seale.

Attica, probabilmente la più famosa rivolta di un carcere nella storia, non fu una sollevazione caotica ed ebbra. Fu al contrario ordinata e ben organizzata. I detenuti garantirono la salvezza degli ostaggi. Elessero una commissione di cinque prigionieri incaricata di negoziare sulla base di un documento approvato da tutti i rivoltosi, The Attica Liberation Faction Manifesto of Demands, nel quale venivano avanzate 33 richieste, tra le quali il miglioramento del vitto, la libertà di culto, la possibilità di andare alle docce una volta al giorno, la fine delle violenze fisiche e degli abusi. Un giovane militante, Elliot “L.D.” Barkley, di appena 21 anni, diventò il portavoce pubblico dei detenuti ribelli. La sera stessa del 9 settembre lesse di fronte alle tv e alla stampa una dichiarazione che iniziava così: «Noi siamo uomini! Non siamo bestie e non intendiamo essere picchiati e trattati come se lo fossimo».

La trattativa proseguì sino al 13 settembre. Il governatore dello Stato di New York, il miliardario repubblicano Nelson Rockefeller, nonostante le attese non si fece vedere. Molte richieste dei detenuti, 28 su 33, furono accolte: per un po’ sembrò che la vicenda, sulla quale era ormai concentrata l’attenzione non solo di tutta l’America ma del mondo, potesse concludersi positivamente. Invece due specifiche richieste bloccarono l’accordo: i detenuti volevano la rimozione del direttore della prigione e la garanzia di amnistia per i reati commessi durante la rivolta. Il negoziatore per lo Stato di New York, il responsabile del sistema carcerario Russell Oswald, rifiutò. I detenuti accettarono di ritirare la richiesta di dimissioni del direttore ma tennero duro sull’amnistia. Gli osservatori che di fatto gestivano la trattativa, in particolare l’avvocato William Kunstler, chiesero l’intervento diretto del governatore. Rockefeller respinse l’invito e nella notte tra il 12 e il 13 settembre, dopo essersi consultato con il presidente Nixon, disse a Oswald di ordinare l’attacco.

Il coinvolgimento diretto del presidente nella decisione di sferrare l’attacco è rimasta nascosta sino a pochi anni fa, rivelata dalla giornalista Heather Ann Thompson nel suo libro Blood on the Water, definitiva ricostruzione dell’intera vicenda premiata nel 2016 col Pulitzer. Nixon voleva lanciare un messaggio «alla folla di Angela Davis». In privato, ma registrato su nastri emersi solo decenni dopo, Nixon commentò così la strage: «Penso che avrà un dannato effetto salutare sulle future rivolte nelle carceri, proprio come ha avuto un dannato effetto salutare la Kent State». Alla Kent State University, Ohio, 4 studenti erano stati uccisi dalla polizia, l’anno precedente, durante una manifestazione. Al mattino Oswald fece un ultimo tentativo di convincere i rivoltosi ad arrendersi, ma senza chiarire che si trattava appunto dell’ultima chance prima dell’attacco. Alle 9.46 di lunedì 13 settembre, fu ordinato alla polizia che circondava il carcere da quattro giorni di riconquistarlo. Sia Nixon che Rockefeller avevano messo nel conto la morte di alcuni ostaggi. I poliziotti incaricati di riconquistare Attica erano 550, ai quali fu detto di togliersi i numeri di identificazione. A questi si aggiunse un numero imprecisato di sceriffi e poliziotti di tutto lo Stato, molti con le loro armi personali, e le stesse guardie carcerarie assetate di vendetta. Molti fucili furono caricati con micidiali pallottole di diverso tipo, bandite dalla Convenzione di Ginevra.

L’assalto fu lanciato con un pesantissimo lancio di fumogeni che cancellò ogni visuale. Gli assalitori aprirono il fuoco all’impazzata e alla cieca, nel fumo spesso. Furono uccisi 29 rivoltosi e 9 ostaggi. Un decimo ostaggio morì qualche giorno dopo in ospedale. I leader della rivolta, tra cui “L.D.” Barkley non furono però falciati nella prima sparatoria. Vennero uccisi a freddo, dopo essersi arresi. Tutti i detenuti furono selvaggiamente picchiati dopo la riconquista del carcere. Le autorità, governatore Rockefeller incluso, affermarono che le guardie perite erano state sgozzate dai rivoltosi. Meno di 24 ore dopo furono smentite dalle autopsie: tutte le guardie, eccetto quella uccisa nel primo giorno della rivolta, erano state colpite a morte dal “fuoco amico”. Le cause intentate dalle famiglie dei detenuti uccisi si prolungarono per decenni. Nel 2000 lo Stato concluse un accordo con un risarcimento collettivo di 8 mln di dollari. Le famiglie delle guardie uccise dovettero attendere fino 2005, prima di essere risarcite con 12 mln di dollari. La stessa Thompson ammette che per intero la verità su Attica non saprà mai.