Sarà forse capitato a qualcuno, osservando l’incredibile testa-coda di Giuliano Amato sulla vicenda Ustica, di riandare con la memoria alle prime settimane del 2015, quando a seguito delle dimissioni volontarie di Giorgio Napolitano i grandi elettori della Repubblica furono chiamati a eleggere il nuovo Capo dello Stato.

E viene da chiedersi, esercitando un’azione di “sliding doors”, che cosa sarebbe accaduto allora (e al nostro Paese) se nella circostanza specifica Matteo Renzi (all’epoca Presidente del Consiglio e leader del Pd nonché dominus della vita politica italiana a seguito del roboante 40,8% conseguito sei mesi prima alle Europee) avesse deciso di accettare il patto che si era andato cristallizzando alle sue spalle tra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi per convergere sulla figura del “dottor Sottile” al vertice della Repubblica.

Di certo, Renzi si sarebbe evitato molti, successivi, guai. Avesse pensato al contingente e al tornaconto politico, nella circostanza avrebbe potuto fare buon viso e sdoganare il patto del “Dalemoni”, per riprendere una terminologia di pansiana memoria.

Vigeva infatti all’epoca il “Patto del Nazareno”, l’entente cordiale tra il centrosinistra ed il centrodestra che stava assicurando una stagione di riforme costituzionali, oltre che un clima di potabilità delle relazioni tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione dopo un ventennio di reciproche delegittimazioni. Già nel Pd soffiavano i primi spifferi di rancore verso il leader del Nazareno, che all’indicazione di Massimo D’Alema come Alto rappresentante dell’Unione Europee per la politica estera e di sicurezza aveva preferito l’opzione di Federica Mogherini, innescando il sordo rancore dell’ala dalemiana del Pd.

L’intesa sulla candidatura di Amato avrebbe avuto -a voler leggere le cose con le lenti miopi dell’equilibrio interno, tipico di chi antepone sempre il Partito alle istituzioni – il triplo pregio di sanare un vulnus con Max, mantenere in vita il Patto del Nazareno e spianare la strada delle riforme costituzionali senza dover passare dal referendum confermativo.
Come noto, le cose andarono altrimenti. E al posto di una operazione di strisciante consociativismo, che mirava di fatto a mettere in un angolo il giovane astro nascente di Firenze per poi probabilmente regolare i conti con questo papa straniero toscano che a suon di voti e rottamazione si permetteva di rompere lo schema di equilibrio imperante nei salotti romani da decenni, partì la candidatura autorevole e significativa di Sergio Mattarella. Che spaccando la destra, isolando i grillini e ricompattando il centrosinistra, assicurò alla Repubblica un grande interprete e un sicuro garante.

Chissà come sarebbero andate le cose diversamente. Forse, nella loro saggezza, i grandi elettori avrebbero regolato la vicenda Amato nel segreto dell’urna.

Quel che è certo è che grazie alle scelte di allora, la Repubblica ha evitato di avere un inquilino al Quirinale (e un capo delle Forze Armate) la cui memoria su vicende dolorose e delicate si innesca a fasi alterne, e con confusioni sottili e chirurgiche.

Di questo tempi, non è poco.