Il confronto
La strategia del Real Madrid e il divario con l’Italia: la Serie A non è interessata agli utili, l’unica speranza è la Superlega europea

Quando nel 2015 a Berlino il Barcellona vinse la Champions League battendo in finale la Juventus, l’allora presidente Joan Laporta, forte di una invidiabile situazione che vedeva nel club stelle di prima grandezza come Lionel Messi, Luis Suárez e Neymar júnior, dichiarava che l’obiettivo era quello di diventare il primo club a fatturare 1 miliardo di euro a stagione. Mai avrebbe immaginato, in quel momento, che nove anni dopo sarebbe stato il Real Madrid, rivale di sempre, ad annunciare di essere il primo al mondo ad aver totalizzato 1,073 miliardi di euro totali nel 23/24 proprio mentre il Barcellona affronta la più clamorosa e profonda crisi finanziaria della sua storia.
Le merengues hanno annunciato il traguardo unito a 16 milioni di utili nella stagione 23/24, in cui hanno festeggiato la quindicesima Champions League (più del doppio del Milan, secondo per trionfi nel massimo torneo europeo) ed hanno presentato pochi giorni fa Kylian Mbappé, probabilmente il giocatore più forte del mondo in questo momento, arrivato a parametro zero (ma con emolumenti monstre che ne faranno il giocatore più pagato di tutti). Il risultato si presta ad analisi di contesto, per capire come sia stato possibile che il Real Madrid, un club che a inizio anni ’90 vendeva in Italia i suoi numeri 10 come Martin Vázquez e Gheorghe Hagi a club medio-piccoli di Serie A (rispettivamente Torino e Brescia), sia diventato il club più ricco e potente. Vincente, per la verità, lo era sin da quando Francisco Franco decise di farne uno strumento di notorietà del paese in Europa, favorendone la crescita a partire dalla metà degli anni ’50 tra metodi leciti e meno leciti (tra i quali ad esempio la controversa vicenda dell’acquisto di Alfredo Di Stefano, inizialmente preso dai rivali del Barcellona).
Da allora la storia è nota: 5 Coppe dei Campioni consecutive, una sesta arrivata poco dopo e un lungo silenzio interrotto nel 1998 (altra finale contro la Juventus) agli albori dell’era Bosman prima dei 9 trionfi (il primo nel 2000) di questo millennio. Il presidente Florentino Pérez, eletto nel 2000, si è affermato come il leader più vincente nella storia del club con una strategia che, a fronte di iniziali operazioni di mercato roboanti, per tenere buona la piazza, come i 150 miliardi di lire alla Juventus per Zinédine Zidane, si è poi rivelata assai lungimirante. Era l’estate del 2000 e la Money League, classifica elaborata da Deloitte sui club con più ricavi in Europa, diceva che il Real Madrid (164 milioni) era secondo dietro il Manchester United (185) e davanti a Bayern (145), Milan (142), Juve (140) e Lazio (126), con l’Inter nona a 107 e la Roma decima a 101. Oggi nella migliore delle ipotesi la distanza è raddoppiata o triplicata.
Perez e il Real Madrid hanno capito al pari dei club inglesi e tedeschi che le opportunità di sviluppo legate a sponsorizzazioni, merchandising, biglietteria e diritti tv stavano superando quelle a fondo perduto del mecenatismo, ed era ora di cambiare rotta. L’ultima Money League ha visto i club italiani (come accade ormai quasi sempre da un decennio a questa parte) fuori dalle prime dieci posizioni europee. Questo perché in particolare Milan e Inter hanno continuato imperterrite a vivere per tutti gli anni 2000 grazie al patronaggio di Silvio Berlusconi e Massimo Moratti, mentre la Juventus che quel percorso virtuoso lo aveva intrapreso da fine anni ’90 (con la pianificazione del nuovo stadio, tra le altre cose) è stata decapitata anche finanziariamente da Calciopoli nel 2006. Prima dello scandalo era terza in Europa per fatturato, nel 2007 al ritorno in Serie A undicesima: da allora nonostante gli sforzi la miglior posizione è stata la nona a dimostrazione di un gap incolmabile dentro questo sistema.
Il calcio italiano è sempre stato un calcio B2B in cui fino agli anni ’90 la dimensione dei club era proporzionale alle tasche dei presidenti. Chi voleva vincere accettava di perdere soldi in proporzione alle proprie disponibilità, chi voleva guadagnarci lo faceva con le compravendite del calciomercato. Il nostro è l’unico paese in cui il mercato dei club è un luogo fisico, inventato a inizio anni ’50 dall’allora presidente del club, il principe Raimondo Lanza di Trabia, e questa cosa ci dice qual è il dna dello sport più popolare: un affare tra ricchi signori che si scambiano calciatori provando di volta in volta a risultare più furbi degli altri. Moderna riedizione del panem e circenses romano, la Serie A non è mai stata interessata a massimizzare gli utili attraverso i ricavi, tra cui quelli da stadio, mentre il merchandising era storicamente terreno di conquista dei gruppi ultras.
La testimonianza è lo stato generalmente pietoso, oggi, degli impianti, dopo il fallimento strutturale di Italia ’90. Altro che tifosi clienti, come qualcuno sostiene. Magari fosse così: la realtà è che nessun negoziante accoglierebbe i propri clienti alla maniera degli stadi italiani. A prescindere da questo, le entrate erano principalmente da botteghino e dalla distribuzione dei proventi del totocalcio prima della comparsa delle pay tv. Negli anni ’90 la Serie A era il miglior campionato al mondo soprattutto perché i nostri club erano quelli più disponibili a perdere soldi al mondo (non è cambiato molto: l’ultimo saldo aggregato a giugno 2023 è di -440 milioni). La bolla scoppiata a cavallo del 2000 – con gli scongiurati fallimenti di Lazio e Roma, quello pilotato del Parma e quello roboante della Fiorentina – ha suonato un campanello d’allarme non sufficiente. Negli ultimi 15 anni Milan e Inter hanno dovuto fare i conti con uno squilibrio finanziario a peggiorare il contesto di un fatturato mediamente molto basso rispetto ai competitor europei dal quale stanno uscendo a fatica (i rossoneri quest’anno sono tornati all’utile: non succedeva dal 2006).
Nel frattempo, come detto, in Europa le grandi hanno pedalato: il Real Madrid ha investito in grandi campioni ma non solo, da inizio millennio ha internazionalizzato il business raccogliendo sponsor in ogni angolo del mondo (e l’essere arrivato prima di altri ha pesato), investendo nel brand che oggi è il più imponente dello sport europeo (superato solo dai colossi del professionismo Usa), inaugurando una strategia galattica volta a prendere calciatori sempre più forti, sempre più giovani e sempre più valorizzabili in termini commerciali nei mercati di riferimento oltre che sul piano sportivo nel medio lungo periodo. Dal 2017, il club ha investito su giovani giocatori come Vinícius Júnior, Rodrygo e Valverde. Con l’arrivo imminente di Endrick e quello recente di altri talenti in erba come Camavinga e Arda Güler ha scommesso su un paziente sviluppo a lungo termine, facendosi forte del vantaggio tecnico acquisito e riuscendo anche a “ipervalutare” giocatori in uscita, tendenzialmente in parabola discendente, come accaduto per Cristiano Ronaldo alla Juventus e Casemiro al Manchester United.
Il divario oggi è oggettivamente incolmabile, a meno che il Real, come il Barcellona, non incappi in una serie di errori strategici e di investimento tanto clamorosi quanto al momento onestamente impronosticabili. L’unica speranza è una Superlega europea inserita in un nuovo quadro di regole più simili a quelle del professionismo americano che del liberismo sportivo europeo. Ma all’orizzonte non si vedono dirigenti illuminati in grado di fare da collante per un lungimirante progetto che sia al contempo di sviluppo e riequilibrio della distribuzione del talento. Ad oggi l’unica livella è il calcio stesso: in fondo si gioca sempre in 11 e l’unica speranza contro la corazzata è legata alla aleatorietà dei risultati sportivi.
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