La riforma
Su indulto e amnistia bisogna cambiare il quorum
In un tempo nel quale la legislazione penale reca le stimmate del punitivismo populista e dove gli stessi assi portanti dell’architettura costituzionale franano sotto i suoi possenti colpi di maglio, corre addirittura il rischio di apparire eversiva l’iniziativa legislativa che coltivi l’obiettivo di ridare spazi di agibilità a tipologie di leggi – quali quelle in materia di amnistia e indulto – che hanno una destinazione in bonam partem, operando come cause che cancellano o riducono la punibilità per determinate categorie di reati o di condanne. Si tratta, invece, di un genere di interventi che – oltre a dare copertura a istanze di giustizia e di funzionalità delle fonti giuridiche e dei poteri costituzionali – produce anche un effetto di benefico rafforzamento della fiducia nel diritto, rinfrancando quanti reputano che esso vive e si intreccia con l’impegno a riaffermarne la funzione civile di emancipazione e difesa delle libertà individuali e della pace sociale. E rammenta come l’oscurantismo regressivo, penetrato nel discorso pubblico e nelle strutture normative del nostro tempo, potrà battere in ritirata se si saprà restituire corpo e sangue a culture e a pratiche dei poteri autoritativi che ne sanciscano la portata solo residuale.
In questo contesto si colloca il disegno di legge costituzionale di riforma della disciplina delle leggi di amnistia e indulto, presentato alla Camera dei deputati il 2 aprile scorso. Due gli obiettivi perseguiti dall’iniziativa di riforma: a) sottrarre il potere di clemenza generale dall’abrogazione de facto in cui l’ha trascinato la legge costituzionale n. 1/1992, con la scriteriata previsione di una maggioranza deliberativa del tutto inedita e mostruosamente elevata – superiore finanche a quella richiesta per la revisione costituzionale; b) responsabilizzarne l’impiego, scongiurando le derive indulgenziali del passato. Per realizzarli, la proposta di legge prospetta un triplice ordine di modifiche: 1) sostituisce il quorum dei due terzi dei componenti di ciascuna camera (in ogni suo articolo e nella votazione finale) con la maggioranza assoluta degli stessi (per la sola votazione finale); 2) include le leggi di amnistia e indulto nella riserva d’Assemblea (già contemplata dall’art. 72, comma 4, Cost.); 3) ultimo ma non ultimo, individua nelle “situazioni straordinarie” e nelle “ragioni eccezionali” i presupposti della loro emanazione.
Come ci avvertono la ragione costituzionale ed il buon senso, si tratta di obiettivi e proposte che vanno in una direzione senz’altro condivisibile, ma la cui concretizzazione legislativa reclama l’apertura, nel foro del dibattito pubblico, di un adeguato spazio di riflessione sugli argomenti che li giustificano. Non si può, infatti, dimenticare come intorno all’amnistia e all’indulto sia cresciuta una diffusa diffidenza fondata sul convincimento che essi siano ormai reperti di un’archeologia giuridica refrattaria alle relazioni di civiltà secolarizzata dello Stato costituzionale. Sul piano storico, questa idea si alimenta dell’abuso che durante la complessiva esperienza dello Stato unitario si è fatto della clemenza, trasformatasi da congegno destinato a riequilibrare in situazioni particolari le tensioni interne ad una penalità espansiva, in una sua ordinaria modalità di gestione, producendo il paradossale effetto di legittimare la realtà di un diritto penale ben oltre i limiti di sostenibilità sociale.
Sul piano culturale, la contrarietà ad amnistie e indulti, che pur risale alla rigorosa consequenzialità del pensiero illuministico riflesso nell’astrattismo razionalistico della sua impostazione, è venuta rafforzandosi nell’incontro con il linguaggio e lo spirito del populismo penale del nostro tempo e con il corto circuito che ne è scaturito nel circolo perverso dei rapporti tra la decisione politica di matrice parlamentare e il consenso sociale. È stato infatti ben detto che «essere contrari ad atti di clemenza è molto popolare, assicura facile plauso e garantisce dividendi elettorali» (Pugiotto). Non a caso, la riforma del 1992 che, di fatto, ha sbarrato la strada all’approvazione delle leggi in materia fu partorita «nella malmostosa atmosfera di Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare» (Pugiotto) divenendo il «mito fondativo della nascita della nuova Repubblica dalle ceneri della prima» (Insolera).
Eppure, solo fino a qualche anno prima ai provvedimenti di clemenza toccava l’opposta sorte di essere decisioni politiche generatrici di consenso popolare, come si ricava dagli argomenti che Togliatti utilizzò nell’Assemblea costituente a giustificazione del potere di grazia e come dimostra l’emanazione di ben ventuno amnistie e indulti nella stagione repubblicana fino al 1990. Riteniamo che sia giunta l’ora di voltare pagina e di archiviare entrambe le degenerate rappresentazioni del potere di clemenza. L’esigenza – avvertita da ampi settori della cultura giuridica e della militanza civile – di restituire effettività ad un potere ridotto a mera apparenza e a simulacro di sé stesso deve accompagnarsi ad una disciplina dei presupposti e delle modalità procedimentali di approvazione idonea a circoscriverne gli spazi di impiego in conformità alla sua natura eccezionale. Vanno perciò condivise e sostenute le proposte di cui si fa portavoce il prospettato intervento di revisione costituzionale degli articoli 79 e 72, comma 4, Cost.
L’abbassamento del quorum nella previsione di una maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera serve a disinnescare i “paralizzanti veti incrociati” che del “mostruoso procedimento rafforzato” oggi vigente rappresenta un effetto perverso. Nel disincagliare il potere di amnistia e indulto, l’ipotizzata modifica può aiutare a prevenire gli strumentali aggiramenti della legalità costituzionale a cui il legislatore è stato costretto in questi anni a ricorrere per venire incontro alle esigenze di decongestionamento del carico giudiziario e della popolazione carceraria alle quali hanno dato tradizionale copertura i provvedimenti di clemenza tipici. La previsione, poi, di “codificare” i presupposti di straordinarietà delle situazioni e di eccezionalità delle ragioni e quella di rimettere alla competenza delle assemblee parlamentari (e non anche delle loro commissioni) la discussione e la votazione delle leggi in materia hanno la funzione di responsabilizzare il legislatore, concorrendo a razionalizzarne le scelte su basi di effettiva necessità.
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