L'intervista
“Sui fondi russi urgente verificare, sarebbe alto tradimento”, intervista ad Alberto Pagani
L’Ucraina recupera terreno, la regione di Kharkiv è quasi del tutto riconquistata. E mentre centrodestra e centrosinistra si confrontano sulla postura internazionale del Paese, Mario Draghi telefona a Volodimyr Zelensky per assicurargli che la continuità dell’appoggio all’Ucraina è fuori discussione. Ne abbiamo parlato con l’onorevole Alberto Pagani, del Partito democratico. Pagani è Capogruppo Pd in commissione Difesa alla Camera e delegato presso l’Assemblea parlamentare Nato.
La crisi ucraina sembra a un tornante, i russi iniziano la ritirata. Che idea si è fatto della guerra?
E’ prematuro parlare di svolta. Credo che Putin, confidando sulla nostra dipendenza energetica, si aspettasse una reazione molto debole ed opportunistica dell’Europa, limitata ad una condanna retorica dell’aggressione, con tante belle manifestazioni per la pace, ed un’inconcludente azione diplomatica. Il suo progetto iniziale è fallito nelle prime ore. Attaccando l’Ucraina sperava di favorire un golpe militare che deponesse il Governo Zelensky dall’interno, spiazzando l’Occidente, ma ha fallito. Così i russi si sono trovati impantanati in una lunga guerra novecentesca, incontrando una resistenza più solida del previsto, sostenuta dall’Occidente con intelligence e forniture tecnologiche e militari. Senza questi aiuti la guerra sarebbe finita rapidamente e male, con l’annientamento della resistenza ucraina e la vittoria militare della Russia. A quel punto per quale ragione Putin avrebbe dovuto fermarsi e non minacciare la Moldavia, dato che il 90% della popolazione della Transnistria è russofona?
Cosa si attende dalla Russia, da Putin?
I Russi hanno sempre vinto le guerre lunghe, perché sopportano meglio le perdite ed hanno capacità militari più adatte alla guerra di attrito che alla guerra lampo. Credo che la ritirata da Kharkov sia dovuta all’efficacia dell’effetto sorpresa della controffensiva ucraina e ad errori tattici russi, ma che non sia affatto l’inizio della fine. E credo che Putin non si fermerà finché riuscirà ad andare avanti, qualsiasi tentativo diplomatico mettessimo in atto. Se lo facesse sarebbe una sconfitta catastrofica e la fine dell’era Putin. Se incontrerà una resistenza sufficientemente solida credo che si fermerà quando avrà conseguito, esclusivamente sul piano militare, un risultato che potrà raccontare come una vittoria, anche se non lo è.
Quindi non crede nella possibilità di una vittoria russa?
In realtà Putin ha già ottenuto un successo, scatenando un terremoto globale, con epicentro in Ucraina, dal quale dovrà nascere un nuovo Ordine Mondiale, in ogni caso. Ma non può più ottenere il risultato di sottomettere l’Ucraina, come sperava. Ora si dovrà accontentare di un risultato più modesto, ma può accettare un cessate il fuoco solamente se raggiungerà un successo parziale, anche minimo, sul campo. Di meno sarebbe troppo poco, e l’insuccesso sarebbe una sconfitta catastrofica per la Russia. Sarebbe anche la sua fine politica, perché non potrebbe dire che gli obiettivi dell’operazione speciale sono stati raggiunti, perderebbe ogni credibilità, e la fiducia del suo popolo. Se ne dovrebbe andare.
E’ questo che auspicano i Governi occidentali? Un cambio di regime in Russia?
In Occidente ci sono idee ed aspettative diverse, come è naturale che sia. Io però mi chiedo che cosa accadrà se i russi saranno sconfitti militarmente, e non costretti ad uno stallo, e ad accettare una fine delle ostilità. In questo caso c’è il rischio reale di un’escalation atomica? E come dovremmo reagire noi occidentali? Lanciando le nostre bombe atomiche sulla Russia? “Una simile guerra non è un’opzione politica per una persona razionale”, disse il Presidente americano Trouman nel 1953, nel suo ultimo messaggio al Congresso. E poi, cosa succederebbe in Russia nel caso di disfatta in Ucraina? Collasserebbe il sistema politico, e poi anche quello economico, perché la Russia è uno Stato Mafia. Ci sarebbe la destabilizzazione pericolosissima di una potenza nucleare, e le 6.000 testate che sono negli arsenali atomici russi sarebbero in cerca di nuovi padroni. La nostra intelligence occidentale dovrebbe evitare che una sola di quelle armi di distruzione di massa finisca nelle mani di un terrorista, o di un folle. Sinceramente non trovo che sia una prospettiva auspicabile. E poi non credo proprio che dopo Putin verrebbe un progressista, o un uomo di pace.
Il pacifismo cosa rappresenta per lei?
Io sono un convinto pacifista. Ho sempre lavorato per la pace. Chi si occupa di Difesa e di Sicurezza Nazionale deve essere pacifista, altrimenti è pericoloso. I militari italiani sono impegnati in quaranta missioni internazionali per riportare o difendere la pace nelle aree più instabili del pianeta, contrastano il terrorismo e cooperano alla ricostruzione di Stati che sono falliti, garantiscono la sicurezza delle popolazioni civili, tutelano ed aiutano i più deboli, le vittime di tutte le guerre. Questo è il pacifismo in cui credo. Non si garantisce la pace solamente evocandola, perché nel mondo ci sono i prepotenti, i violenti, i dittatori, i criminali di ogni tipo. Questi non si inteneriscono e non si intimoriscono quando vedono i colori delle nostre bandiere della pace. In realtà la deterrenza ha garantito la pace più degli appelli accorati, e lo sappiamo dai tempi degli antichi romani.
Come ha lavorato il Partito democratico (e lei) in commissione difesa alla Camera? Buona intesa con il governo, ci sono stati episodi particolari, frizioni?
In questi quattro anni e mezzo c’è sempre stato un confronto serio e collaborativo sia con i Governi che tra le forze politiche. Non ricordo alcun episodio di frizione seria, nemmeno quando abbiamo discusso degli F35, che era stato il principale tema di propaganda nella legislatura precedente. In questa legislatura è stata approvata dalla Camera una risoluzione che ha ottenuto una maggioranza larghissima, quasi l’unanimità. Ciò dimostra che il confronto serio, sul merito, può produrre mediazioni alte, sulle quali possono convergere delle posizioni politiche che all’inizio erano molto distanti. Per riuscirci però è necessario che i partiti accettino di rinunciare alla propaganda strumentale, nefasta su temi così delicati, per cercare una sintesi comune, nell’interesse nazionale.
Il Quirinale e Palazzo Chigi hanno tenuto, insieme con il ministro Guerini, la barra a dritta. E se vince la destra come cambierebbe il quadro?
Mi auguro che non vinca la destra, e se dovesse vincere mi auguro che non cambi sostanzialmente il quadro. Il Presidente della Repubblica è posto dalla Costituzione a capo delle Forze Armate, ed il Consiglio Supremo di Difesa viene convocato almeno due volte all’anno. Se non vi fosse accordo ed armonia con il Capo del Governo o con il Ministro della Difesa sarebbe un bel guaio per l’Italia. La politica Estera e quella di Difesa sono due facce della stessa medaglia, mostrare delle incertezze o delle contraddizioni indebolirebbe il Paese, nel peso politico, nel ruolo e nella considerazione degli alleati.
Durante l’esperienza del Conte II si sentiva un’aria diversa rispetto agli impegni Nato?
Assolutamente no. Il Governo Conte II ha investito nelle spese militari come era previsto dagli accordi Nato, incrementando la spesa per raggiungere progressivamente l’obiettivo pattuito del 2% del PIL. Non c’è stata mai discussione sull’opportunità o meno di mantenere gli impegni assunti perché credo che fosse chiaro a tutti che ne andrebbe della nostra credibilità. Conte ha cominciato a fare propaganda sul taglio delle spese militari solo di recente, quando non aveva più nessuna responsabilità diretta ed ha pensato che dirsi contrario alle spese militari servisse per recuperare un po’ del consenso che il suo partito aveva perduto.
La difesa è sempre più cyber, le informazioni sempre più vulnerabili. L’Italia si sta adeguando ai tempi sotto il profilo dell’analisi e della prevenzione delle minacce informatiche?
Il Governo Draghi ha fatto grandi passi in avanti nelle Cybersecurity, grazie soprattutto alla determinazione del Sottosegretario Gabrielli, autorità delegata alla sicurezza nazionale. Abbiamo perso anni facendo troppe chiacchiere inutili, ed accumulando un ritardo pericoloso, soprattutto nella protezione delle infrastrutture critiche. Nell’ultimo anno e mezzo è stata istituita l’Autorità Nazionale per la Cybersecurity, e sono state adottate importanti modifiche normative, da ultima quella introdotta dal decreto aiuti due, in conversione in questi giorni alle Camere, che permette di contrastare gli attacchi informatici ostili rispondendo con azioni capaci di danneggiare e neutralizzare le capacità ed i sistemi degli aggressori.
Aumenterà ancora la spesa militare, è nelle cose?
Nel 2014 il Presidente americano Obama chiese agli Stati aderenti alla Nato di riequilibrare il loro impegno economico per garantire, con il contributo equo delle singole Forze Armate nazionali, gli impegni della Difesa collettiva. Tutti gli alleati si accordarono e si impegnarono a raggiungere una soglia minima di investimento per la Difesa. La richiesta che anche noi si faccia la nostra parte è giusta perché la Nato è un’alleanza difensiva e la sicurezza di ciascuno è garantita dall’impegno di tutti. Pretendere di beneficiare dell’ombrello protettivo senza contribuirvi in ragione delle nostre possibilità sarebbe un comportamento parassitario e poco dignitoso, come quello del condomino che non paga le spese condominiali e costringe gli altri a pagare anche per lui. Nobilitare questa intenzione ammantandola di pacifismo penso che sia veramente ipocrita.
Salvini propone il ritorno della leva obbligatoria. Cosa ne pensa?
Salvini dice che serve per arginare il fenomeno delle baby gang, come se l’esercito fosse una specie di riformatorio per raddrizzare i giovani delinquenti. Ma il compito di educare ce l’hanno i genitori, la scuola, gli amici, lo sport, non le Forze Armate, che devono difendere la Patria dalle minacce esterne, non supplire alle carenze educative della società. La leva obbligatoria rispondeva ad una concezione napoleonica della guerra, ed è stata superata più di vent’anni fa perché abbiamo bisogno di professionisti ben addestrati, capaci di utilizzare sistemi tecnologici complessi, di operare in contesti difficili. Riaprire le vecchie caserme per reclutare migliaia di giovani, sprecare soldi per vestirli, equipaggiarli ed armarli, è un’assurdità che può dire solamente uno che non ha idea di cosa serve realmente alla Difesa. E poi dove dovremmo li impiegare questi ragazzi impreparati, dopo i tre mesi di CAR? In Medioriente? In Africa? Nei Balcani? E’ una proposta davvero ridicola.
Si parla da trent’anni di modello europeo di difesa, di esercito comune. Si comincia a muovere qualcosa?
Poco, perché si continua a girare attorno al problema principale, che non è militare, ma politico. Forze Armate comuni sono possibili solamente se c’è una politica estera e di Difesa comune, che presuppone una cessione di sovranità in questo campo dai singoli Stati all’Unione Europea, cioè il contrario del sovranismo, che caratterizza la destra. I militari non hanno difficoltà a lavorare insieme, sono abituati a farlo i tutte le missioni internazionali, che siano sotto l’egida delle Nazioni Unite, della Nato o dell’Unione Europea è uguale. Il problema è la decisioni politica: dove li impieghi, come li impieghi, per quali scopi, con quali regole di ingaggio. Se non c’è una decisione comune in questo senso, mettere insieme una brigata europea serve a poco, perché concretamente può fare soltanto l’addestramento e le parate militari.
Che cosa bisogna fare allora per avere finalmente una Difesa europea?
Per fare progressi reali bisogna che i grandi Paesi europei, come la Francia, la Germania e l’Italia, concepiscano il loro interesse nazionale in una prospettiva strategica più ampia e lungimirante. Il mondo è sempre più dominato dalle grandi potenze, come gli Stati Uniti e la Cina, è non c’è rimasto molto spazio per gli interessi degli altri. E’ anche per questo motivo che Putin si agita tanto. Sembra che i singoli Stati Europei non lo vogliano capire. L’idea sciocca di essere i più furbi, e di potersi avvantaggiare delle disgrazie del proprio vicino di casa, caratterizza quella politica di piccolo cabotaggio, miope e meschina, che condannerà l’Europa ad essere il vaso di coccio tra i vasi di ferro. Solo se ragionerà nei termini di un interesse nazionale europeo, e agirà di conseguenza adottando una politica estera e di Difesa comune, l’Europa potrà essere una grande potenza, avrà un peso nel nuovo Ordine Mondiale, e potrà tutelare gli interessi europei. Se prevarranno i nazionalismi ottusi, l’Europa non diventerà mai un gigante politico, ma rimarrà una famiglia di nani da giardino, che a volte collaborano e a volte cercano di fregarsi tra di loro, e che contano come il due di coppe quando la briscola è bastoni.
La Russia ha tentato di influenzare la politica italiana?
Certo, è nel suo interesse, perché non dovrebbe farlo? Anche l’Unione Sovietica influenzava la politica italiana, a favore del Partito Comunista, quando riteneva di poterne trarre un vantaggio. Smise di farlo solo quando Berlinguer prese le distanze da Mosca e disse che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello protettivo della Nato. Per questo tentarono di ucciderlo, simulando un incidente automobilistico, quando era in visita a Sofia. I Russi hanno una visione globale fin dai tempi dell’impero zarista, ed usano ogni mezzo a loro disposizione per influenzare la politica degli altri Paesi. La differenza principale dal passato è che la Russia comunista aiutava la sinistra mentre quella di Putin aiuta la destra, perché il sovranismo indebolisce l’Occidente e l’Europa, e fa quindi il suo gioco.
I casi di Walter Biot e Maria Adela, anche se ben diversi tra loro, puntavano entrambi a carpire informazioni militari. Le risultano rafforzate le contromisure?
Probabilmente l’impegno dello spionaggio russo nel nostro Paese è stato più forte in passato di oggi, perché ai tempi della Guerra Fredda l’Italia aveva una posizione più strategica. Per questo il vecchio Sismi, il servizio segreto militare, si era specializzato nel controspionaggio. Oggi le minacce sono più diversificate e più complesse di allora. Quando il mondo era caratterizzato dall’elegante semplicità della contrapposizione tra due blocchi bastava seguire gli americani, ora dobbiamo imparare a cavarcela da soli perché la nostra sicurezza ed il nostro futuro dipende prima di tutto da noi stessi. Per questo non credo che la nostra priorità sia rafforzare le contromisure difensive, ma piuttosto acquisire maggiori capacità offensive, di raccolta informativa autonoma, anche per mezzo dell’attività clandestina di spionaggio, come fanno gli altri. E’ indispensabile per non dipendere troppo dagli alleati e perché la politica non sia cieca e sorda, quando deve prendere le sue decisioni. Dobbiamo capire che nel mondo di oggi conti per quello che sai, non per quello che sei, o credi di essere.
© Riproduzione riservata