1. Sono state depositate le sentenze (nn. 49, 50, 51/2022) che motivano l’inammissibilità di tre degli otto quesiti abrogativi sottoposti al giudizio della Consulta. Aggiungono un ulteriore capitolo a una saga – la giurisprudenza referendaria della Corte costituzionale – oramai accessibile solo ai chierici del diritto. Ai comuni cittadini, invece, la sua intellegibilità è preclusa da tempo, e non per loro colpa. Vale anche per queste ultime decisioni. Per dire: la n. 49 in tema di responsabilità civile dei magistrati riconosce che «le norme oggetto del quesito referendario sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, 2° comma, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo». Eppure è poi egualmente bocciato. E lo è perché il suo effetto rovescerebbe il principio espresso dalla legge in vigore. Eppure il referendum è una fonte del diritto, non un plebiscito.

La n. 50 giudica inammissibile l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. «per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito». Eppure simili norme, realizzando una tra le tante soluzioni astrattamente possibili per attuare la Costituzione, si prestano indifferentemente ad essere mantenute in vigore o abrogate: così almeno insegnava la Consulta, quando identificò per la prima volta tale categoria normativa. La n. 51 boccia il quesito su alcune norme del testo unico sulle droghe, ritenendo il suo scopo «vano e illusorio» e il suo esito normativo «fuorviante» e viziato da «vistosa contraddittorietà». Eppure la medesima pronuncia esclude che spettino al giudice referendario valutazioni sulla costituzionalità della normativa di risulta. Evidentemente, il principio di non contraddizione abita altrove. Lo scarto tra regola e (ir)regolarità giurisprudenziale si conferma ad ogni tornata referendaria. Solo dopo, mai prima, è possibile dire se un quesito, comunque formulato e qualunque ne sia l’oggetto, è in grado di superare l’esame della Consulta. Ogni volta l’unica certezza è l’incertezza sul suo esito, come al tavolo della roulette. Fate il vostro gioco: rosso o nero? Rien ne va plus.

2. Lo dicono anche le cifre (che traggo da una tabella elaborata dal politologo Pier Vincenzo Uleri). Dal 1970 ad oggi, i referendum sottoposti al giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale si contano in 163. Salomonicamente, 83 sono stati promossi, 80 bocciati. Colpa dell’incapacità dei promotori a formulare quesiti costituzionalmente corretti, verrebbe da pensare (e da dire, come ha fatto il Presidente Amato in questa occasione). Ma non è così. Invero, i limiti tracciati dall’art. 75, 2° comma, Cost. sono pochi e alla Consulta spetterebbe giudicare delle richieste referendarie solo alla luce di questi (come prescrive l’art. 2, legge cost. n. 1 del 1953). Sono limiti inequivoci, perché escludono non generiche materie ma specifiche leggi: tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. E sono limiti di stretta interpretazione, come sempre quando è in gioco l’esercizio di un diritto (di voto, in questo caso). Detto altrimenti, secondo il disegno costituzionale il referendum è la regola, la sua inammissibilità l’eccezione. E allora, come si spiega un’ecatombe pari al 50% dei quesiti vagliati a Corte in tutti questi anni?

3. Si spiega con la scelta di verificare se il quesito rispetti ulteriori limiti di ammissibilità che la Corte stessa, progressivamente, ha ricavato dall’ordinamento costituzionale. Cioè ha autonomamente forgiato per via pretoria. Le sole cinque leggi sottratte ad abrogazione popolare si sono così moltiplicate esponenzialmente, in ragione di criteri inediti, variamente interpretabili, sempre più sofisticati e così numerosi che un accreditato manuale, per censirli tutti, impegna una decina di pagine (cfr. A. Ruggeri-A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Giappichelli, 2022, 381-391). Dentro, c’è di tutto e di più. Leggi insuscettibili di abrogazione popolare perché comunque collegate a quelle espressamente sottratte a referendum. O a motivo della loro forza giuridica. O della loro natura costituzionalmente necessaria. O perché necessarie all’adeguamento al diritto europeo. Quesiti dichiarati inammissibili per «incompletezza» o perché la loro formulazione è priva di «matrice razionalmente unitaria», «omogeneità», «coerenza», «teleologica significanza».

Referendum bocciati per la loro prevedibile produzione di effetti incostituzionali nell’ordinamento. O perché «propositivi», «creativi», «eccessivamente manipolativi» e non meramente abrogativi. Inevitabili le aporie e le contraddizioni interne a una giurisprudenza così caotica. Stratificatasi nel tempo, è come un serbatoio colmo fino all’orlo di precedenti cui attingere a sostegno – indifferentemente – dell’ammissibilità e dell’inammissibilità del quesito. È una dialettica che non ha nulla di hegeliano perché, qui, tesi e antitesi non portano ad alcuna sintesi più avanzata. Semmai, si elidono reciprocamente. Ciò consente alla Consulta, in sede referendaria, di agire come un giudice sottratto alle regole scritte perché libera di optare tra criteri da essa stessa creati. Una situazione contraria al rule of law ma per la quale l’ordinamento non appresta rimedio, perché «contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione» (art. 137, 3° comma, Cost.). Un divieto, questo, che la Consulta presidia con severo rigore garantendosi il “diritto all’ultima parola” nell’esercizio di tutte le sue competenze, incluso il giudizio referendario. Peraltro, se anche i promotori del quesito bocciato impugnassero la sua “arbitraria” sentenza in sede di conflitto di attribuzioni, l’art. 134 Cost. chiamerebbe a risolverlo la stessa Corte costituzionale, iudex in causa propria. Qui l’analogia è con il totocalcio: facile prevedere la vittoria di chi gioca in casa.

4. Questa condizione, apparentemente invidiabile, andrebbe invece percepita a Corte come pericolosa e controproducente. Nel giudizio di ammissibilità referendario, la Consulta e l’opinione pubblica favorevole all’iniziativa abrogativa finiscono per scontrarsi, più che incontrarsi. Le inevitabili polemiche ne fanno il momento di massima esposizione pubblica (e mediatica) della Corte, di cui viene così restituita ai cittadini un’immagine sfregiata. «Poco importa se a torto od a ragione, si è diffusa l’impressione che i giudizi di cui si discute siano fortemente politicizzati», annotava già nel 1996 Livio Paladin, che pure da giudice costituzionale firmò la sent. n. 16/1978, matrice di tutta la creativa giurisprudenza referendaria.

Qui è il punto cruciale. Ad ogni tornante referendario la Corte costituzionale mette a rischio la propria legittimazione e, con essa, la condizione di efficacia della sua intera giurisdizione. Non disponendo di un apparato coercitivo per dare esecuzione alle proprie sentenze, la Consulta necessita infatti di un consenso complessivo attorno al proprio ruolo e alla propria azione. Questa legittimazione diffusa – non di matrice politica, ma istituzionale e da funzione – le è essenziale come l’acqua per i pesci. Lo prova l’attivismo delle ultime sue presidenze nel costruire un canale di collegamento tra Corte e opinione pubblica: attraverso il «Viaggio in Italia» nelle scuole e nelle carceri, i comunicati e le conferenze stampa a spiegare le decisioni assunte, l’esposizione mediatica del suo Presidente, la pubblicazione degli annuari, i podcast dei giudici costituzionali che raccontano «le sentenze che ci hanno cambiato la vita». Privata di questa legittimazione, la Consulta si ritroverebbe rischiosamente in bilico tra l’abbraccio mortale della politica e la progressiva marginalità istituzionale. In equilibrio precario sul filo di un rasoio pericoloso per tutti. Ogni volta, le sue sentenze referendarie possono rivelarsi pietra d’inciampo, cioè di scandalo. Che fare, allora, per evitarlo?

5. La soluzione è restituire prevedibilità alle sue decisioni sui singoli quesiti referendari. A minarla è stata la Corte, per via pretoria. Tocca allora alla Corte sminarla, ricalibrando il proprio ruolo all’interno del procedimento referendario. Potrà farlo, innanzitutto, restituendo all’Ufficio centrale della Cassazione competenze ad esso progressivamente (e indebitamente) sottratte: il controllo sulla natura dell’atto normativo oggetto di referendum (ai sensi dell’art. 75, 1° comma, Cost.), sulla completezza del quesito e sulla sua formulazione (trattandosi di limiti modali della richiesta abrogativa, e non di vizi di contenuto del referendum). Andranno poi abbandonati i criteri di giudizio connessi ai possibili effetti normativi del voto abrogativo, fin qui adoperati come escamotage per mascherare una competenza che l’ordinamento non contempla, né assegna alla Corte in sede referendaria: quella, cioè, di un sindacato di legittimità preventivo e astratto sull’ipotetica normativa di risulta.

Giudizio referendario e giudizio di costituzionalità hanno tempi, regole processuali, tecniche decisorie, finalità completamente differenti: non vanno, dunque, impropriamente sovrapposti. Infine, andrà tolto ogni alibi al legislatore che, durante tutto il procedimento referendario (e oltre), resta titolare della funzione legislativa e del suo tempestivo esercizio. La sua inerzia non può legittimare supplenze della Consulta, chiamata a bocciare referendum per disarmonie o incongruità discendenti dalla parzialità dell’intervento abrogativo. Spetterà al Parlamento prevenire il voto popolare o modellarne l’esito, coordinandolo al meglio con le norme preesistenti. A ciascuno il suo, in leale collaborazione tra poteri.

6. Una correzione di rotta è urgente. In passato è già accaduto per orientamenti della Corte costituzionale egualmente radicati e cruciali. Se si vuole si può fare. E se si può, sarà bene farlo. Da parte dei giudici costituzionali, si tratterebbe di una prova di lungimiranza e di altruismo interessato.