Gli effetti negativi della pandemia da Coronavirus hanno avuto un impatto non solo sull’ambito dell’economia ma anche sulla sfera sociale. Il che non rappresenta una sorpresa: nelle settimane di durissime restrizioni personali in molti avevano avanzato forti dubbi sull’efficacia ed evidenziato serie preoccupazioni per le conseguenze.
Sono i giovani ad aver provato sulla loro pelle le ripercussioni peggiori, dall’apprendimento scolastico alla semplice quotidianità. Parlano chiaro i dati forniti dalla Federazione Italiana Medici Pediatri nel 2022, secondo cui negli ultimi due anni abbiamo assistito a un incremento del 75% per quanto riguarda i casi di tentato suicidio da parte di una ragazza o un ragazzo.
Numeri da capogiro, per gli adolescenti ma anche pre-adolescenti, che mettono i brividi: ogni giorno nel nostro Paese si assiste a un caso del genere. È importante analizzare tutte le nuove forme di disagio e sofferenza che continuano ad angosciare i più giovani. Una priorità dettata da un’altra cifra significativa: sono 100mila i giovanissimi che hanno imboccato il sentiero che porta alla morte sociale. Si tratta dei cosiddetti hikikomori: con il termine giapponese (che significa “stare in disparte”) si fa riferimento a coloro che hanno deciso di isolarsi per lunghi periodi, evitando contatti con l’esterno e sfuggendo alle dinamiche sociali. Una fattispecie estrema ma che purtroppo è diffusa tra gli adolescenti. Antonio D’Avino, presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri, ha fatto notare che la situazione è finita al centro del Congresso Scientifico “proprio per disporre di strumenti aggiornati”.
La domanda sorge spontanea: che ruolo ha giocato il Covid-19? Per Silvia Zecca la pandemia è stata una vera e propria “bomba atomica” dal punto di vista sociale per i giovanissimi. Tornano alla mente i lockdown totali, le norme restrittive, il distanziamento. Un combinato disposto di misure rigide che – secondo la coreferente nazionale FIMP Gruppo Abuso e maltrattamento dei minori – ha “contribuito a creare un fortissimo disagio”.
Un urlo silenzioso di cui ci si è accorti con i vari dati raccolti nei Pronto Soccorso. A tal proposito Bambino Gesù ha riportato che nel 2018-19 gli accessi per ideazione suicidaria, tentativo di suicidio e autolesionismo erano stati 464; nel 2020 e nel 2021 si è passati a 752 (un aumento di oltre il 60% che arriva al 75% se si considera solo il suicidio ideato o tentato). I casi di ideazione suicidaria sono stati 477 (+88%), i tentativi di suicidio 172 (+50%) e i comportamenti autolesivi 103 (+8%). Oltre l’80% dei tentativi di suicido è messo in atto da bambine e ragazze. È emerso inoltre che l’età media di chi tenta di togliersi la vita è di circa 15 anni. E il più giovane ha 9 anni.
Inevitabilmente i riflessi hanno toccato anche i ricoveri in Neuropsichiatria: sono passati da 338 nel 2019 a 492 nel 2021, facendo registrare un aumento del 45%. Nello specifico le ospedalizzazioni in Neuropsichiatria per autolesionismo sono passate dal 30 a oltre il 60% del totale. Il prof Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù, ha annotato che la pandemia “ha solo accentuato il fenomeno”.
Non ci si può esimere dal rispondere a un interrogativo ben preciso: era davvero necessario mettere in campo un pugno così duro sulle scuole? Perché si è preferito tenere i ragazzi a casa, obbligandoli a seguire le lezioni in didattica a distanza? Non era meglio prevedere un calendario di ripartenza dando precedenza al ritorno sui banchi? C’è chi in quel periodo lo aveva proposto. Attirandosi una marea di critiche, dai politici iper chiusuristi agli scienziati del rigore. Ma ci aveva visto lungo e, osservando i dati sopracitati, il rammarico raddoppia ulteriormente.
Ad esempio Matteo Renzi a fine marzo 2020 aveva puntato l’attenzione sulla necessità di favorire la ripartenza dell’attività scolastica in presenza. Aveva chiesto tempistiche chiare e un’azione in grado di garantire gli esami di persona: “Il sei politico fa male. I ragazzi hanno il diritto di essere valutati e il governo ha il dovere di permetterlo”. La proposta prevedeva il ritorno sui banchi il 4 maggio, consentendo la didattica in presenza almeno ai 700mila studenti delle medie e ai 2 milioni 700mila delle superiori. Tutti di nuovo in classe, ovviamente “mantenendo le distanze e dopo aver fatto comunque tutti un esame sierologico”. Ma l’opposizione pregiudiziale aveva avuto la meglio.
Ora è lecito domandarsi se un cronoprogramma così definito avrebbe scongiurato un impatto tanto crudele sui giovani. Lo sguardo va rivolto verso il futuro per far sì che si possa contare su una serie di strumenti efficaci contro le forme di disagio che di fatto paralizzano i ragazzi. Sullo sfondo resta comunque il rimorso per aver fatto troppo poco per evitare un colpo così brusco sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti.