"Assente una società civile che si domandi cosa sta succedendo"
Suicidi in carcere, l’ex garante Mauro Palma: “Sovraffollamento ma non solo: qui è morta la speranza”
Un problema da affrontare “immediatamente e con urgenza”, così il Presidente Mattarella due giorni fa è tornato sul problema dei suicidi in carcere. Lo aveva già fatto a fine gennaio e da allora la situazione non è cambiata. I numeri fanno impressione: 26 le persone che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Un trend che senza interventi urgenti, appunto, rischia di non cambiare rotta.
Chiediamo di spiegarci questi numeri a Mauro Palma, fino allo scorso gennaio Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e ora presidente dello “European Penological Center” dell’Università Roma Tre.
Cosa ci dicono questi numeri?
«Mi baso sulla situazione che ho conosciuto fino a gennaio di quest’anno. Sono per lo più detenuti senza un lungo trascorso in condizioni di detenzione, persone al contrario con una presenza tutto sommato breve, anche ai primi periodi, o persone sull’orlo dell’uscita dal carcere. Peraltro in diversi casi parliamo di detenuti senza condanne di particolare gravità».
Quale clima delle nostre carceri evidenziano questi casi?
«Sono sempre scelte complesse che affondano nella sfera personale, guai quindi a volerle interpretare dal di fuori. Esistono però due fattori che determinano un clima complessivo. In primo luogo, uno esterno: il carcere nel dibattito pubblico è visto come un mondo a perdere, senza speranza. Non è un terreno su cui impegnare risorse per avvicinarlo di più alla società esterna. Se è così, un soggetto più fragile rischia di pensare che il suo ritorno in società sarà impossibile. I suicidi in carcere interrogano innanzitutto noi all’esterno, ben più che l’amministrazione carceraria. Interrogano il modo in cui noi, dal di fuori, rappresentiamo il mondo dentro e come lo abbiamo fatto diventare il luogo di tutte le esclusioni sociali».
Su questo punto il sovraffollamento incide relativamente, il secondo fattore invece?
«L’altro elemento interroga il mondo interno al carcere. Qui effettivamente incidono i numeri: oggi le carceri italiane ospitano circa 61mila detenuti su 48mila posti regolamentari. Ma è il ritmo di crescita della popolazione a preoccupare: circa 400 persone in più al mese. È un trend che determina stress per chi è detenuto come per chi lavora in carcere con turni molto impegnativi. E davanti a una difficoltà complessiva del sistema, spesso a prevalere sono logiche di chiusura. Penso ad esempio al modo in cui è stata interpretata in fase di sperimentazione la circolare del DAP (luglio 2022) per il rilancio del circuito di media sicurezza. Quel documento nasceva per stimolare progetti e attività rivolte ai detenuti, affinché occupassero costruttivamente il tempo trascorso fuori dalla cella. L’esito invece è stato diverso: anche a causa dei numeri alti è prevalsa un’interpretazione della circolare in termini di maggiore chiusura. Più che prendersela con i singoli agenti penitenziari, allora, dobbiamo capire come far diventare il carcere un ambiente più simile al mondo esterno».
Come?
«Le faccio un esempio. A seguito della recente sentenza della Consulta che riconosce il diritto all’affettività per i detenuti, serve renderne possibile l’applicazione. E francamente non vedo un’amministrazione penitenziaria impegnata ad attrezzarsi in tal senso. I nuovi padiglioni in costruzione prevedano, dentro i necessari parametri di sicurezza, spazi consoni a vivere la propria intimità. E sarebbe opportuno fare anche una fotografia degli istituti dove già oggi questa possibilità esiste».
Davanti a numeri in crescita la soluzione proposta sembra essere costruire nuove carceri. Che ne pensa?
«Esistono piani diversi, e non basta imboccare una strada sola. Dobbiamo innanzitutto guardare all’immediato trovando un meccanismo per abbassare subito i numeri, sul medio periodo poi penso alla possibilità di portare la liberazione anticipata dai 45 giorni attuali a 60. Sul lungo periodo poi è possibile anche mettere in campo soluzioni di edilizia penitenziaria, ma sapendo che per costruire un carcere, o anche solo riadattare a questo scopo un edificio già esistente, serve tempo. E non sempre è la soluzione che favorisce il reinserimento di chi sta scontando pene brevi».
Ieri il Presidente Mattarella, intervenendo all’anniversario della Polizia penitenziaria, ha lanciato un ulteriore appello: istituzioni e società devono sentirsi chiamati in causa da ciò che accade dentro le mura del carcere. Come si supera questa barriera?
«Bisogna rimettere al centro l’idea che il carcere ci appartiene e su questo coinvolgere la società civile. Era l’ispirazione degli Stati Generali dell’esecuzione penale. In Italia ci sono moltissime iniziative sociali, artistiche, sportive rivolte alla popolazione detenuta. Non c’è invece una società civile che si domandi che cosa succede in carcere. Lavorare sul rimosso che il carcere si porta dietro è essenziale per eliminare lo stigma sociale che ancora si porta dietro. Oltretutto è nell’interesse della società tutta; la maggior parte delle pene sono di breve durata, significa che le persone escono o usciranno a breve: a tutti noi converrebbe favorirne l’integrazione».
© Riproduzione riservata