La procura di Massa (Massa Carrara) ha presentato ricorso in appello contro la sentenza della Corte d’Assise della città apuana che il 27 luglio ha assolto Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, deceduto col suicidio assistito in Svizzera nel 2017. Ne dà notizia l’associazione Luca Coscioni di cui Welby è co-presidente e Cappato tesoriere. Al processo il pm Marco Mansi aveva chiesto per Welby e Cappato una condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione, al minimo di legge, riconoscendo tutte le attenuanti, aveva spiegato in aula. “Il reato di aiuto al suicidio sussiste – aveva detto il pm -, ma credo ai loro nobili intenti. E’ stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito“.

In una nota Marco Cappato e Mina Welby prendono atto della decisione della procura di Massa di ricorrere in appello contro l’assoluzione, evidenziando però come il ricorso “arriva pochi giorni dopo la lettera ‘Samaritanus bonus’ (con la quale la Santa Sede ha definito un ‘crimine’ l’aiuto a morire e ha bollato come ‘complici’ coloro partecipano a tale aiuto, materialmente o attraverso l’approvazione di leggi) e conferma la gravità dell’ incertezza giuridica e della minaccia che incombe sui malati terminali italiani che vogliano sottrarsi a condizioni di sofferenza insopportabile”. “Vogliamo ribadire oggi – aggiungono Cappato e Welby – che la grave responsabilità di quanto sta accadendo è tutta del Parlamento italiano che non ha ancora fornito risposta ai due richiami della Corte Costituzionale. Da parte nostra, rifaremmo quanto abbiamo fatto per aiutare Davide, e siamo pronti a rifarlo con altri malati nelle stesse condizioni quando sarà necessario, anche se il prezzo da pagare dovesse un giorno essere quello di finire in carcere”.

Cappato e Welby, ricorda l’associazione Luca Coscioni, sono stati assolti della corte di assise di Massa perché il fatto non sussiste in relazione alla condotta di rafforzamento del proposito di suicidio e perché il fatto non costituisce reato riguardo alla condotta di agevolazione dell’esecuzione del suicidio. Nelle motivazioni della loro sentenza i giudici di Massa hanno successivamente “chiarito questo diritto”, sottolinea ancora l’associazione Coscioni, evidenziando che il requisito dei “trattamenti di sostegno vitale“, indicato dai giudici della Corte Costituzionale con la sentenza 242/19, non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza “da una macchina”, ma qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici, compresi anche la nutrizione e idratazione artificiali.