La giornalista sportiva molestata in diretta
Sul caso di Greta Beccaglia sbagliano Sgarbi, Feltri e Ferrara: non è il gesto di un coglione ma violenza
Prendiamo tre uomini, intellettuali tra i più intelligenti, e mettiamoli davanti a un episodio di molestia nei confronti di una donna, diventato subito di pubblico dominio anche perché avvenuto in diretta televisiva, come quello subito dalla giornalista sportiva Greta Beccaglia. Prendiamo per esempio Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri e Vittorio Sgarbi e cerchiamo di leggere sulle loro labbra, nei loro commenti quel minimo sindacale di imbarazzo che la situazione dovrebbe imporre. Rossore perché ancora una volta una giovane donna è stata sfregiata, il suo corpo violato, lei umiliata davanti a tutti, oltre a tutto impossibilitata a muoversi dalla diretta tv e da quel faro che ha continuato a illuminare lei, il suo corpo e il suo aggressore. E quella voce che dallo studio la invitava a non prendersela. Come a dire: bambina mia, sono cose che capitano! E purtroppo è vero, sono cose che capitano. Che capitano alle donne.
Giorgio Micheletti, il conduttore della diretta tv dallo studio di Firenze, è sicuramente una brava persona. Un maschio paternalista che fa pat pat sulla spalla della giovane cronista, che le accarezza i capelli, che la consola come si fa con i bambini quando si sono sbucciati un ginocchio mentre giocavano e correvano. Ma qui non c’è una bimba in lacrime, qui c’è una donna impietrita che non riesce a dire nulla di più se non “tu questa cosa non la puoi fare” a un maschio violento e irridente ormai in fuga dopo averle dato una palpata al sedere. E che sarà mai, dicono in coro, dopo aver tutti virtuosamente preso le distanze dal palpatore, Ferrara, Feltri e Sgarbi. Che le donne non si colpiscano neanche con un fiore è un modo di dire maschile di quelli che trovano volgare l’uomo manesco ma considerano eccessiva la donna che non accetta l’attenzione indesiderata, che non si arrende a considerarla una goliardata.
C’è un particolare che mi ha colpito, negli articoli di Giuliano Ferrara e di Vittorio Feltri e nell’intervista di Vittorio Sgarbi, l’uso del termine “coglione” per definire colui che, al termine di una partita di calcio in cui la sua squadra del cuore aveva perso, quasi per consolarsi con un gesto che pacificasse il suo umore con la vita, si era fuggevolmente appropriato di una parte del corpo di una donna. Un gesto di possesso, altro che goliardata. Una dimostrazione inconsapevole del fatto – e non c’è molta differenza in questo, alla fin fine, tra le società evolute e quelle arretrate – che il corpo della donna è sempre messo a nudo, sempre a disposizione di chi voglia prenderselo. O in qualche modo violarlo. Il termine “coglione” è quello usato da Beppe Grillo in un famoso video per difendere suo figlio ventenne e tre amici di recente rinviati a giudizio con l’accusa di violenza sessuale. Una situazione diversa da quella di cui stiamo parlando. Ma il termine usato, non a caso esplicitamente riferito a organi genitali, è comunque affettuoso, quasi complice. E’ un messaggio da maschio a maschio, un linguaggio da cui la donna è esclusa, che non comporta alcuno sforzo di capire, di guardare dentro. Pare quasi ci sia negli uomini un’impossibilità, un’impotenza a entrare, anche solo per un attimo, nell’“altra da sé”.
Forse è per fare questo sforzo che oggi ci sono dei ragazzi che almeno una volta all’anno, nella ricorrenza della giornata contro la violenza sulle donne, vanno a scuola con abiti femminili. Per cercare di capire come ci si sente davanti all’uomo che si fa maschio predatore, che dà per scontato il fatto che il corpo della donna sia sempre e comunque a sua disposizione. Non so se questo sforzo dei ragazzi di spogliarsi per un giorno di una cultura che le donne-madri non sono riuscite a staccare dal loro corpo insieme al cordone ombelicale, sarà utile. Ma è qualcosa, una piccola lampadina che forse resterà accesa e qualcuno la vedrà. Vittorio Feltri va giù piatto, da bergamasco con la testa dura: la ragazza al palpatore avrebbe dovuto dare “un calcio nel culo”. Lo capisco, e devo dirgli (se mi leggerà) che io l’ho fatto, da ragazza in una situazione simile, non con un calcio ma con una bella sberla. Perché così ci insegnavano le nostre mamme, in Emilia dove sono cresciuta, e immagino anche a Bergamo. Un modo sbrigativo e risolutivo per rimettere il maschio al suo posto. Ma sbagli, Vittorio, se pensi che per la ragazza, la donna che ha subìto sul proprio corpo una mano indesiderata, quindi nemica, la cosa sia finita lì.
La prima reazione, la stessa delle donne stuprate, è quella di andarsi a lavare, ti togliersi di dosso quell’artiglio, la zampata del porco. Ecco il termine che avrei preferito aveste usato, cari amici: non il coglione, ma il porco. E mi sarebbe piaciuto che qualcuno di voi avesse pensato, avesse capito quel bisogno di pulizia. So già che direte ma una manata non è uno stupro.. E non posso neanche rispondervi “provate voi a subirlo”, perché Vittorio Sgarbi mi ha già risposto in anticipo, dicendo che, poiché ormai donne e uomini godono di uguali diritti (?) “toccare il culo a una donna dovrebbe avere lo stesso valore del toccare il culo a un uomo”. Giuliano Ferrara si spinge anche più in là e accenna a incontri con alcuni “esibizionisti” e alle attenzioni che quando lui era un ragazzino “carino”, gli aveva riservato un professore di greco che gli accarezzava la mano.
Sarà stato traumatico, ho pensato mentre leggevo. Invece no (ma non ci credo del tutto): “Mi sono fatto una risata con gli esibizionisti e ho cambiato professore ma non ho ceduto alla logica morale del trauma, peggio ancora del trauma sociale condiviso…”. Ed ecco il punto centrale del suo ragionamento. Sta scambiando, e trattando con noncuranza e un certo fastidio, una storia “piccola” perché non c’è stupro, non c’è penetrazione e non c’è neanche il sangue del femminicidio, ma “grande” perché racchiude in sé tutta la cultura maschile, con l’esibizionismo stantio del “me too”. E se la prende con quella che chiama “cultura del piagnisteo”, tacciando la ragazza vittima di scarsa consapevolezza di sé, di poca autonomia. Troppo abile per fare una sorta di “Me too” maschile con il molestatore, preferisce identificarsi con il collega paternalista, quello che ti accarezza i capelli e dice “non te la prendere”. Detto tra noi, istintivamente uno schiaffo l’avrei dato anche a lui. Poi magari l’avrei perdonato. Lui sì, l’altro no. Anche se non sono convinta che processarlo servirà a cambiarlo. Né in tribunale né nelle piazze. E su questo sono d’accordo con Giuliano Ferrara.
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