L’Europa comunitaria, anche in questo frangente, sta funzionando. Il problema è che il perimetro di questa Europa che funziona è ormai troppo piccolo per rispondere alle esigenze di intervento europeo, in un periodo di profonda crisi sociale e economica. La Commissione e la BCE, al di là delle improvvide parole di Christine Lagarde, hanno reagito prontamente, perché i trattati consentono di rispondere in modo eccezionale a eventi eccezionali. Sia sul deficit che sulle misure di sostegno ai settori economici la Commissione ha messo l’Italia e gli stati membri in condizione di varare provvedimenti sugli interventi sanitari e economici connessi al Coronavirus oltre agli obiettivi di bilancio concordati.

La Banca centrale ha confermato il quantitative easing e sta già oggi sostenendo il debito italiano, che continua a apparire poco credibile sui mercati, come dimostra l’impennata dello spread, per ragioni che non hanno a che vedere con le decisioni o le non decisioni delle istituzioni Ue, ma con la realtà economico-finanziaria di un Paese che ha la crescita più bassa dell’Ue e il secondo debito pubblico rispetto al PIL.

Ma a reagire alle conseguenze sociali e economiche del Coronavirus non può certo bastare la politica monetaria, peraltro con i tassi di interesse già a zero, né la flessibilità per le scelte di bilancio di paesi finanziariamente deteriorati, come l’Italia. Lì dovrebbe entrare in gioco quella che è ancora la “non Europa”.

Un bilancio europeo con dotazioni e ambizioni diverse e competenze europee più dirette e incidenti, anche in materie in cui adesso l’assenza di un potere di intervento e coordinamento europeo si avverte più fortemente, ad esempio sui temi della tutela della salute e del sostegno del reddito, cioè su diritti fondamentali che in una logica federalista occorre sempre più considerare legati alla cittadinanza europea, per non parlare dell’annoso problema delle “risorse proprie”, fermo per le solite resistenze degli Stati membri.