Il Foglio ha segnalato la strana esortazione apparsa sul Corriere affinché Giorgia Meloni, “soggiogata intellettualmente da compagni di strada iperliberisti”, si mostri più coerentemente fascista nelle sue politiche fiscali. La firma autorevole, lo storico Luciano Canfora, ritiene che la destra di oggi, che nel suo afflato liberista dimostra che “la prosapia si è fatta trumpiana”, sia insensibile alle aperture sociali che hanno invece caratterizzato il fascismo nel secolo scorso. Stanno davvero così le cose per i “fratelli in camicia nera”? Che il programma elettorale dei Fasci di combattimento del 1919 contenesse la misura di una tassazione progressiva non costituiva invero una straordinaria novità nella cultura politica del tempo.

La stessa proposta venne formulata anche da Giolitti, il “bolscevico dell’Annunziata”. Nel discorso di Dronero dell’ottobre del 1919, in vista delle elezioni, lo statista liberale «chiedeva una riduzione delle spese militari, un’imposizione fiscale durissima e progressiva sui redditi, e un’imposta straordinaria sul patrimonio» (C. Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo, vol. II, Laterza, 1999). Quella tassazione progressiva che per Marx rappresentava una misura di riforma molto radicale (ben oltre “l’odore di zolfo giacobino”) divenne, dopo la grande guerra, una misura quasi obbligata. Giunto al potere, però, con le sue aperture liberiste Mussolini dimenticò del tutto le rivendicazioni diciannoviste. Nella concreta azione di governo, si comportò in modo opposto rispetto a un personaggio “filopopolare e antiplutocratico” (insomma un “rossobruno” di tutto rispetto), come invece Canfora lo raffigura. Già nei primi mesi del 1923, aveva mutato registro per sposare il verbo liberista e attrarre il risentimento della piccola impresa contro le tracce di socialismo di Stato contenute tra “le bardature di guerra”.

Il regime fascista, con le sue politiche economiche, sino a metà degli anni Trenta, favorì i grandi produttori e affittuari in virtù del tratto demoniaco della “progressività alla rovescia delle imposte (pari in media al 5 per cento sui redditi più alti contro il 10 per cento su quelli più bassi)” (V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi). L’elevata regressività del sistema tributario liberale non fu certo alterata dal fascismo (che, anzi, pur confermando le imposte sui consumi, abolì la tassa di successione all’interno del nucleo familiare per favorire profi tti e rendite, e ridusse le aliquote nei casi residui). A comprendere perfettamente il significato delle politiche fiscali e di bilancio del ventennio fu Gramsci. Nei Quaderni egli scrisse che «l’indirizzo corporativo sta sempre più diventando, per gli interessi costituiti che sorgono sulla vecchia base, una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una molla di propulsione». Le entrate di bilancio e la tassazione, nelle politiche corporative, miravano al “mantenimento dell’equilibrio essenziale a tutti i costi” e, per scongiurare temibili reazioni di rigetto nella classe media, creavano “occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo”.

Per sciogliere i nodi di una “materia tecnica” dalle grandi implicazioni teoriche e politiche, l’articolo del Corriere si affida a una ricostruzione storica di più ampia gittata. In essa, però, confonde alcuni concetti di base per cui paradossalmente – ha ragione Il Foglio a rimarcarlo – il proposito di demolire “la demagogia della nostra destra trumpiana” si rovescia nell’esaltazione nientemeno che di varianti storiche del principio “iperliberista” della flat tax, che una volta deliberata azzera tutti gli obiettivi redistributivi delle politiche fiscali. Secondo Canfora, l’attuale valore costituzionale della tassazione “informata” a “criteri di progressività” (un cardine di una Repubblica a forti tinte social-lavoristiche che si spinge oltre il modello di Weimar) «riprende quasi di peso l’articolo 25 dello Statuto Albertino» (una carta, però, dal chiaro fondamento proprietario-agrario), che riconduce il tributo dovuto dai “regnicoli” alla “proporzione dei loro averi”. A sua volta, il documento albertino, nel suo ancoraggio alla proporzionalità, è identico – si legge sempre sul Corriere – alla Costituzione del 1830 di Luigi Filippo.

Entrambe, nella sostanza, hanno “ricopiato di peso” il contenuto fiscale dalla Carta francese del 1814, quella della monarchia restaurata, che si aggrappa alla “proporzione” tra ricchezze e tassazione. Qualcosa, però, non torna: basti leggere il lucidissimo intervento alla Costituente del deputato democristiano Salvatore Scoca, che, tra le perplessità di Corbino, formulò il “sistema” della progressività dell’attuale articolo 53 della Costituzione in esplicita opposizione ai criteri proporzionali zoppicanti dello Statuto Albertino. Il filologo classico si concede una traduzione a senso, molto libera (diciamo pure “liberista”), dei documenti costituzionali sfornati tra Ottocento e Novecento. Non è solo il regime fiscale ad esserne lambito, anche l’istituto dell’espropriazione viene da lui sganciato dalla proclamazione della “funzione sociale” della proprietà privata, scolpita proprio nell’art. 42 della Costituzione italiana del 1948, e annacquato con genealogie dubbie che riconducono sempre alla Carta francese dell’età della Restaurazione, che presenterebbe così gli stessi principi-valori della legge fondamentale firmata da Terracini.

Tassazione proporzionale (orientata ad effetti di efficienza) e tassazione progressiva (finalizzata a scopi di redistribuzione) non sono l’identica cosa, come invece suggerisce il pezzo del Corriere. Una delle prime sistemazioni giuridiche del canone fiscale della proporzionalità si ebbe sotto l’impulso della dottrina cameralistica che, in opposizione all’Antico Regime, suggeriva nei domini asburgici l’adozione di grandi riforme dell’amministrazione e delle materie finanziarie. Anche in Lombardia, nel corso del ‘700, venne introdotta un’imposta fondiaria con “un tributo proporzionale alla ricchezza immobiliare”. La portata della riforma che, attraverso il riferimento al censo, istituiva la figura del proprietario-contribuente, in sostituzione della vecchia suddivisione della società in corpi distinti basata sui privilegi di status, fu notevole. «Con la proporzionalità si affermava il principio dell’equiparazione giuridica, rispetto allo Stato e alle funzioni pubbliche, tra il patriziato e la borghesia. Se ognuno era tenuto a contribuire in proporzione delle proprie rendite, cadeva il presupposto di uno status particolare per la nobiltà» (A. Padoa-Schioppa, Storia del diritto in Europa, Il Mulino, p. 415).

In virtù del suo significato storico, di sicuro innovativo rispetto all’antica società stratificata e corporativa, la tassazione proporzionale “instaura un principio di eguaglianza tributaria che si contrappone al privilegio” (F. Valsecchi, L’Italia nel Settecento, Mondadori, p. 511). L’imposta dovuta proporzionalmente, che assume tutti i contribuenti come soggetti astrattamente uguali, è però altra cosa rispetto ai principi della tassazione progressiva. Proprio la Costituzione francese del 1848, che Canfora rammenta, mentre richiama alla necessità di un versamento “en proportion de ses facultés”, esclude ogni possibilità di una contribuzione progressiva, che in vista del tributo recupera la differenza sociale tra gli attori. Le ragioni dell’avversione al gettito fiscale progressivo le ha ben colte Marx: «dalla tassazione progressiva, in cui la percentuale aumenti con l’aumentare del reddito, si cade direttamente in una sorta di socialismo molto incisivo», egli notava (Opere complete, vol. XII).

Il principio raccolto nella Costituzione italiana, e rimasto purtroppo una raccomandazione etico-politica che non sempre si è tradotta in efficaci disposizioni di legge, salda il richiamo all’eguaglianza sostanziale con l’obiettivo di una funzione redistributiva del tributo. Fatte salve le difficoltà di tracciare una qualificazione giuridica della ricchezza e di precisare una quantificazione delle imposte in un’economia a forte tasso di evasione, la tassazione progressiva disegna un’asticella mobile che, grazie alle differenti aliquote, si ispira a canoni solidaristici e mira a obiettivi autenticamente egualitari. L’opposto dell’imposizione proporzionale richiamata confusamente nell’articolo del Corriere. Nella sua filosofia, quest’ultima è molto vicina alla flat tax di Salvini in quanto contempla una quota fissa e si presenta senza legami con i doveri di solidarietà e con le finalità livellatrici proprie delle politiche fiscali. In un’imposta proporzionale, l’aliquota – come accade nell’Ires, che ne prevede una fissa al 24% – non sale perché non tiene mai conto della dimensione quantitativa delle ricchezze. La differenza è netta.

«Nella tassazione progressiva a mano a mano che aumenta l’imponibile aumenta anche la pressione in termini percentuali. La progressività può essere affidata alla scala delle aliquote, quando all’aumentare dell’imponibile l’aliquota cresca più che proporzionalmente» (M. Beghin, Diritto tributario, Giappichelli, p. 70). Il meccanismo proporzionale di contribuzione, invece, postula una percentuale uniforme, che non si eleva con l’incremento del reddito, e non intende incidere in alcun modo sulle ineguaglianze di mercato. Per questo, esso risulta essere il più simile ai marchingegni della flat tax. Le difficoltà amministrative dell’accertamento dei redditi rendono per taluni versi sterile la tassazione progressiva. La fuga del capitale dalla sovranità fiscale nazionale, d’altra parte, aumenta l’accanimento su alcuni tipi di reddito da lavoro e costringe a puntare sulle più inique imposte indirette. Tuttavia, sul piano teorico, “l’imposta progressiva rappresenta certamente l’imposta ideale dal punto di vista della funzione redistributiva del tributo” (ivi). Lo spiegano bene gli studiosi di scienza delle finanze: con il ricorso al meccanismo proporzionale o «utilizzando delle imposte a somma fissa uniformi, il grado di ineguaglianza generato naturalmente dal mercato rimane invariato. Con l’utilizzazione di imposte progressive l’ineguaglianza diminuisce e tende asintoticamente a 0» (R. Artoni, Lezioni di scienza delle finanze, Il Mulino, p. 261).

Gli epigoni di Reagan, oggi al governo, intendono ridurre le aliquote e, con la tassa piatta, promettono al tempo stesso meno gravami per i cittadini e maggiori entrate per lo Stato. Il presidente americano intervenne sul fisco tagliando di 23 punti il prelievo per ogni scaglione. Il risultato empirico della caduta dell’aliquota massima sulle persone dal 70% al 50% fu una miniera d’oro per i redditi più elevati, ma poco più di un nulla di fatto per le altre fasce sociali. Se, come lamenta Canfora, “la guerra delle tasse l’hanno vinta i privilegiati”, questo scacco avviene anche perché, nella battaglia delle idee, si confondono concetti fondamentali e soprattutto si insegue un fantomatico Mussolini antiliberista da proporre a Meloni come ideologo bizzarro di un immaginario rossobrunismo fiscale.