Ma in Medio Oriente con chi sta l’Europa? Il primo anniversario dal pogrom di Hamas contro i civili israeliani coincide con l’apertura della sessione plenaria del Parlamento Ue, che ogni mese si riunisce a Strasburgo. Ieri i deputati hanno discusso dell’attacco di un anno fa. Oggi è previsto un secondo dibattito sugli ultimi sviluppi in Libano e sull’allargamento delle ostilità all’Iran. Tuttavia, la conferenza dei Presidenti, l’organo che riunisce i leader dei gruppi politici e la speaker Metsola, e che fissa l’agenda delle sedute, ha deciso che entrambi i dibattiti non prevederanno una risoluzione comune da mettere ai voti.

Critiche dai progressisti

La mancata presa di posizione ha generato critiche, soprattutto dalla parte progressista dell’emiciclo. C’è chi ha condannato questo silenzio di fronte alla carneficina. Che però non è quella degli israeliani. Il nostro ministro della difesa, Guido Crosetto, ha invece versato acqua sul fuoco, dicendo che «in un momento di escalation e non è facile esprimersi». Strano. Non è proprio in questi casi che si dovrebbe intervenire? In realtà, non è del tutto vero che l’Ue sia rimasta a guardare. Né dopo il 7 ottobre 2023, né prima. Anzi, molto prima. A una settimana dalla strage al Nova Festival, Ursula von der Leyen, si era fatta vedere nei kibbutz colpiti. Un gesto dimostrativo a fianco non tanto di Netanyahu – con cui la distanza di vedute politiche è nota – pensi del popolo israeliano. Un gesto che aveva fatto sperare nella fine dei pregiudizi ideologici che spesso circolano nell’opinione pubblica e nella politica di casa nostra.

La fuga in avanti

Il movimento “Boycott, Divestment, Sanctions” (Bds), che sostiene il boicottaggio di prodotti israeliani nei mercati Ue, risale al 2005. Quindi ben prima della nostra attualità. Addirittura prima della guerra dei 34 giorni” in Libano (2006). Questo conferma che il sentiment antisionista – leggi, antisemita – è un fenomeno carsico: irrisolto e in grado di emergere periodicamente. Tuttavia, la missione di von der Leyen era stata subito bollata come una fuga in avanti, secondo l’opinione del responsabile esteri della Commissione Ue, Josep Borrell, che nelle settimane successive si sarebbe dichiarato ancora più anti-israeliano.

 

Tutto questo perché? La domanda vale anche per la mancata presa di posizione a Strasburgo di questi giorni. L’idea che l’Europa non riesca ad avere una politica estera comune è debole. La guerra russo-ucraina la sconfessa. C’è chi dice che le questioni mediorientali non si risolvono con degli “aut-aut”: se stai con Kiev, non stai con Putin. Da quelle parti invece, pare che viga la regola dell’“et-et”: certo Hamas, però anche Israele… A ben guardare la stessa soluzione “due popoli, due Stati” nasce da un tentativo di compromesso. Tuttavia, molti casi portano a dire che, in realtà, Bruxelles sta più di là che di qua. «Se il 7 ottobre è un tentativo di Olocausto, a Gaza cos’è?» diceva l’ex premier italiano, Giuseppe Conte, la scorsa settimana. Parole che fanno sintesi di molte posizioni, di fatto filo palestinesi, di casa nostra quanto altrove. Ed era ancora più eloquente il gesto di Abir Alsahlani, eurodeputata svedese, peraltro del mondo liberale di Renew Europe, intervenuta in parlamento mettendosi una mano davanti alla bocca e mostrando l’altra macchiata di rosso-sangue. «Non ci sono parole per dire quello che sta succedendo a Gaza», aveva poi concluso Alsahlani, che, giusto per non essere fraintesa, indossava anche una Kefiah.

La composizione delle forze

Siamo così a un’ulteriore domanda: Tel Aviv si può fidare dell’Europa? La spaccatura odierna è palese. Austria e Ungheria stanno con Netanyahu. Il che la dice lunga sulla composizione delle “forze del bene”. Belgio, Irlanda e Spagna le troviamo dall’altra parte. In un momento di ridefinizione dell’anima europea, molte prese di posizione sono dettate dal desiderio della prima pagina. Ma sono i precedenti storici a renderci inaffidabili. In Israele, non ci si dimentica che nei campi di addestramento di al-Fatah e Settembre nero, i terroristi dell’Ira si scambiavano nozioni di combattimento con i Fedayin. Sono note le immagini di un governo francese che, nel 1979, con un aereo di linea Air France, fa tornare in Iran l’Ayatollah Khomeini, affinché si ponga alla guida della rivoluzione dei Mullah e contrasti il sopraggiungere del comunismo. Come pure l’ospitalità data ad Arafat nei suoi ultimi giorni di vita, morto a Clamart, in Francia appunto, nel 2004. I nostri stessi equilibrismi non vengono dimenticati.

È vero, l’Europa ha paura del terrorismo islamico. Per questo cerca di calmare gli animi e si esprime poco. Ma, come in un vaso comunicante, questo permette all’antisemitismo di crescere qui da noi e ci espone alla facile strumentalizzazione da parte di una fazione in gioco.