Tra i molti dibattiti che riscaldano questo inizio estate della politica, uno in particolare appare surreale, per momento e contesto: quello sulla corte dei conti. E tra le molte cose fatte da questo Governo, nessuna mi trova così d’accordo come le norme votate sui controlli della Corte dei Conti sugli investimenti del Pnrr. Norme, per altro, coerenti con quanto già deciso dal Governo precedente, quello di Mario Draghi.

In un paese dove, in ogni assemblea elettiva, quotidianamente, si levano le geremiadi contro la palude della burocrazia, le pastoie e le paure che ingessano l’attività dei pubblici funzionari e degli amministratori, le sabbie mobili di controlli e procedure talmente bizantine da immobilizzare ogni attività, in questo clima appare quanto meno strumentale che ogni volta che qualcuno prova a disboscare quelle regole contro cui tutti si scagliano, il richiamo della foresta del moralismo, del giustizialismo, del populismo più becero si ergano a baluardo dello status quo.

Politica vuol dire scegliere e assumersi le responsabilità di quelle scelte. Se il nostro paese, con le regole date, non riesce a spendere in modo efficiente le risorse che normalmente ha a disposizione, come si può pensare che con quelle stesse regole possa affrontare investimenti straordinari come quelli previsti dal Pnrr? E appare ancor più schizofrenico che a puntare il dito contro le nuove regole di controllo della Corte dei Conti siano gli stessi che quotidianamente denunciano i ritardi sugli investimenti del Piano di Ripresa e Resilienza.

Mi sarei semmai aspettato dalla politica tutta una spinta ad una maggiore semplificazione, a maggiore coraggio. Non possono bastare, anche se vanno nella giusta direzione, le norme che modificano gli effetti sospensivi delle sentenze dei Tar sugli appalti, la riforma del conduce voluta da Salvini, le nuove norme sui controlli. Serve molto, ma molto di più. Occorre, se vogliamo investire in tre anni quel che il paese non è mai stato in grado di spendere in dieci, modificare le regole delle Conferenze dei Servizi, quelle sui pareri preventivi dei vari enti, le norme dettate dal più becero e ideologico ambientalismo.

Ma non è solo questo, c’è di più nel provvedimento in questione. Per la prima volta, la politica, invertendo un trend ultraventennale, prova a riappropriarsi delle proprie prerogative. E a lasciare agli elettori il ruolo di giudice. Da tangentopoli in poi, purtroppo, una politica fragile e invigliacchita, ha spesso delegato alle varie corti compiti di decisione e di indirizzo che non sarebbero propri di magistrati ma di amministratori e legislatori.

Alla Corte dei Conti, per stare sul concreto, spetta infatti giudicare la congruità delle spese della pubblica amministrazione e le corrette procedure di affidamento delle stesse, non già le decisioni politiche che orientano e programmano quelle spese. Facciamo degli esempi: spetta alla politica decidere se la consegna dei farmaci salva vita ad alcune categorie di cittadini debba essere fatta, per loro comodità, al domicilio o attraverso le farmacie ospedaliere. Chiaro che le due modalità di consegna comportano spese diverse a carico dell’erario, e, quindi, saranno i cittadini con il proprio voto nelle successive elezioni a decidere se la scelta fatta è stata la più apprezzabile.

Alla Corte dei Conti spetterebbe solo valutare se la procedura scelta viene pagata al giusto prezzo di mercato e rispettando le regole per la scelta del fornitore. Potrei andare avanti a lungo, se una amministrazione decide di partecipare a tutte le fiere del turismo, con quale tipo di investimento, se decide di attribuire borse di studio ecc ecc ecc sono tutte decisioni che competono alla politica e al suo giudice naturale, il cittadino elettore. Invece oggi, in ogni relazione della Corte dei Conti, in ogni giudizio di parifica degli enti locali, in ogni inchiesta, vi è un surplus di ingerenza sulle scelte della politica.

Per citare una vado che conosco bene, tra i giudici contabili vi è pure chi si è spinto a giudicare il tipo di regalo che una Amministrazione omaggia alle delegazioni in visita: un libro, bene, una cravatta di seterie locali, simbolo dell’artigianato di qualità, male. Ovvio che questo è uno spazio le Coorti hanno occupato in assenza della politica. Se aggiungiamo che le Coorti dei Conti, come i tribunali amministrativi, sono diventate la buca delle lettere di ogni accusa, atto, ricorso, di minoranze politiche sconfitte nelle urne, o di aziende soccombenti nelle gare, diventa assai chiara sia la paralisi del paese, sia lo squilibrio della dialettica democratica. Per questo, io dico, avanti così, e ancora siamo lontani dal risultato minimo accettabile.