Il processo di revisione sul nostro paese
Sulle droghe l’Onu bacchetta l’Italia: “Approccio punitivo, leggi da rivedere”
Lunedì sera il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’ONU (CESCR) ha pubblicato le proprie osservazioni finali sull’Italia, al termine di un processo di revisione periodico sul nostro paese aperto nel 2019. I 18 esperti indipendenti che monitorano l’attuazione da parte degli Stati membri della omonima Convenzione hanno espresso “preoccupazione per l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione e del danno” e quindi raccomandato “che lo Stato riveda le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme internazionali sui diritti umani e alle migliori pratiche, e che migliori la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno”.
Si tratta di un’autorevole conferma di quanto la società civile italiana ha denunciato da anni nel Libro Bianco sulle droghe, e una diretta risposta alle note inviate al CESCR da Forum Droghe e Harm Reduction International, insieme a LILA, la Società della Ragione e Itanpud. Le osservazioni si concentravano proprio sulla criminalizzazione e stigmatizzazione del consumo e sulla negazione in gran parte del territorio nazionale – carceri comprese – delle politiche di riduzione del danno (RdD). La Riduzione del Danno, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sino alle varie agenzie ONU, da ormai molti anni è riconosciuta come componente fondamentale del diritto alla salute. Purtroppo in Italia è garantita nominalmente come Livello Essenziale di Assistenza (LEA), ma senza un atto di indirizzo che obblighi le Regioni ad attivare servizi specifici. Il nuovo Piano d’azione sulle droghe, in cui è inclusa, a leggere le prime dichiarazioni della nuova maggioranza di governo non sembra aver un grande futuro. O almeno un futuro coerente con quanto emerso durante la Conferenza di Genova, in particolare per quanto riguarda decriminalizzazione e RdD.
Il quadro italiano è desolante. Solo 5 regioni hanno una solida implementazione di politiche di RdD. Da una ricerca condotta dalle ONG, solo un terzo circa di tutti i servizi RdD è considerato “stabile”, il resto è esternalizzato al privato sociale e soggetto a rinnovi, spesso incerti e di breve durata. Ci sono ben 6 regioni in cui questi servizi sono totalmente assenti, altre in cui sono presenti solo in pochi luoghi. Anche nelle regioni in cui sono più diffusi, non tutti i servizi sono disponibili e accessibili in tutte le città. Solo 9 regioni hanno programmi di scambio-siringhe mentre la strategia della consegna del naloxone è garantita solo in 7. Il drug checking, pur divenuto servizio stabile, legale e pubblico, fa parte del pacchetto di interventi in solo 4 regioni.
Preoccupanti anche i dati rispetto ai dati degli screening: solo il 28% delle persone assistite dai servizi pubblici è stato sottoposto al test dell’HIV, ancor meno (22%) a quelli per HBV e HCV. Alla terapia sostitutiva degli oppioidi accede solo il 30% della popolazione potenziale. In carcere è l’unico servizio disponibile per i detenuti, ma la continuità delle cure non è spesso garantita. Tutti gli altri non sono consentiti, perché l’uso di droghe in carcere è illegale e quindi ufficialmente “negato”. Sul piano della repressione il quadro non è certo migliore. Il 36% di coloro che entrano in carcere sono definiti “tossicodipendenti”. Il 35% dei detenuti in Italia è invece in carcere per reati legati alla legge sulle droghe. Il doppio della media europea e molto di più della media mondiale. Sette su dieci sono in carcere per reati minori. Anche se grazie al referendum del 1993 il consumo non è più punibile con il carcere, è rimasta la struttura repressiva della Jervolino-Vassalli.
La distinzione stessa tra uso personale e spaccio è molto sottile. Sia a causa dei bassi limiti di detenzione, indeterminabili per i consumatori, che per gli indizi di spaccio, comunemente reperibili in qualunque casa italiana. Finisce spesso che siano gli imputati che devono dimostrare il consumo personale, con un’inversione dell’onere della prova a volte insuperabile per chi non si può permettere una difesa adeguata. Così, i più deboli finiscono per affollare le carceri. Le leggi sulle droghe, e lo stigma verso le persone che le usano, sono legate a doppio filo con numerosi decessi a seguito di fermi, arresto e detenzioni: si pensi ai casi noti, come Cucchi, Bianzino, Aldrovandi e Magherini.
Anche quando è acclarata la detenzione per uso personale e la sanzione è solo amministrativa, la repressione colpisce duro. Non si tratta di una multa, ma di pesanti misure punitive ed emarginanti, come la revoca della patente e del passaporto, anche senza che la persona abbia tenuto una condotta pericolosa. La loro perdita in molti casi pregiudica il diritto al lavoro e allo studio, così come la possibilità di muoversi liberamente. Dal ‘90 ad oggi circa un milione e mezzo di italiani sono stati segnalati per questi provvedimenti, un milione per possesso di cannabis. Spesso alla perquisizione in strada ne segue una a casa. Con lo stigma che ne consegue, in famiglia e nel quartiere. Sono purtroppo ben noti diversi casi di suicidio legati alla repressione del consumo.
La legge è talmente spietata che anche malati bloccati a letto, come Walter de Benedetto, finiscono sotto processo penale per coltivazione di cannabis. La loro colpa è quella esser stati costretti ad autocoltivarsi la pianta perché l’Italia non è in grado di garantire loro la continuità terapeutica, a causa di una inspiegabile incapacità di assicurare la quantità effettivamente richiesta di cannabis medica. Il CESCR ha deciso anche di iniziare il lavoro su un commento generale sull’”impatto delle politiche sulla droga sui diritti economici, sociali e culturali”. Un ulteriore passo avanti verso un approccio complessivo alla questione droghe, troppo spesso relegata a fatto criminale o – quando va bene – sanitario, senza mai indagare invece le sue dimensioni sociali, economiche e culturali.
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