È stata a New York il minimo indispensabile, 48 ore in tutto, 15 minuti di discorso all’Assemblea generale per dichiarare la “guerra totale agli scafisti”, qualche incontro bilaterale e un faccia a faccia con Zelensky. Stop. La politica estera, in genere una parentesi rosa tra le difficoltà della maggioranza e dell’azione di governo, questa volta non ha funzionato come balsamo. Anzi. Giorgia Meloni è arrivata a snobbare l’invito al tradizionale gala che il presidente Usa organizza in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. E ha disertato anche la riunione “specialissima” del Consiglio di sicurezza dove per la prima volta è stato ospite Volodymyr Zelensky.
Arrabbiata, stufa, isolata dal resto di Europa e in balìa di flussi migratori abbastanza fuori controllo, alle 15 di ieri pomeriggio la premier è atterrata a Roma con poche ore di sonno e un’agenda piena di problemi da risolvere. Con la sua maggioranza. E con l’immigrazione prima che scappi di mano e non sarebbe un bel modo per festeggiare il primo anno di governo. Tra sabato e domenica Fratelli d’Italia organizza in tutta Italia “L’Italia vincente, un anno di successi di governo Meloni”. La premier sarà guest star a Roma all’Auditorium della Conciliazione. Sarà difficile impostare una narrazione vincente e vittoriosa visto come stanno andando le cose.
L’ultimo proclamo – espulsioni grazie ai Cpr – non convince nessuno. Poco anche i tecnici che lo hanno impostato. I Centri per i rimpatri “uno in ogni regione”, come ha ribadito ieri al Senato nel question time il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, sono una ricetta vecchia e ingannevole. “È dimostrata la relazione tra il numero dei rimpatri e i Cpr” ha sottolineato il ministro dell’Interno. “Il 70% di chi passa da lì viene rimpatriato”. Ma sono i numeri assoluti che svelano il bluff: meno di cinquemila persone in un anno a fronte di circa 6-700 mila irregolari con foglio di espulsione in mano. Il nodo sono gli accordi di rimpatrio: senza i paesi di origine che li accettano, non ci potranno mai essere espulsioni.
I bilaterali al palazzo di Vetro con alcuni leader dei paesi africani dovrebbero servire a stabilire nuovi accordi. Peccato che la premier abbia incontrato il Ruanda – che non è tra paesi di origine dei flussi – ma è invece l’esperimento tentato dal premier inglese, amico di Meloni, per parcheggiare in quel paese i richiedenti asilo che si trovano nel Regno Unito. Opzione bocciata dalla Corte d’appello inglese contro cui Sunak ha fatto ricorso.
I presidenti di regione non vogliono i Centri con capienza fino a 200 posti e fino a 18 mesi di trattenimento. Ci sono alcune eccezioni: il presidente della Calabria Occhiuto, o il sindaco di Ventimiglia e qualcun altro in località di frontiera, di mare ma anche di terra, territori che rischiano di finire fuori controllo. Gli amministratori locali, anche il leghista Zaia, preferiscono il modello dell’accoglienza diffusa, piccoli nuclei da distribuire in centri ormai spopolati. Solo così si può tentare un minimo di integrazione. Non certo con il modello Mineo, il villaggio militare nella Sicilia orientale che raggiunse quasi quattromila presenze, il doppio di quelle previste e dopo anni di incidenti fu chiuso dicendo: “Mai più”.
I Centri comunque si faranno, “in luoghi isolati lontani dai centri abitati per lo più in immobili già esistenti in uso alla Difesa” ha promesso Meloni. È caccia alle aree prescelte. Il governo, soprattutto la Difesa che è stata incaricata dell’operazione, mantiene il top secret. Se esce un indirizzo, scatta la rivolta. Se va tutto bene, se non ci saranno ricorsi al Tar e cose del genere, ci vorranno almeno due mesi. E nel frattempo?
Intanto siamo a 132.832 sbarchi, una flessione netta negli ultimi giorni (pare che la Tunisia stia filtrando le partenze), ma sempre più del doppio dell’anno scorso. Tutta gente che non ha più accoglienza (smantellata dai decreti Salvini del 2019) e che o riesce a scappare o in Italia difficilmente trova una soluzione diversa dalla delinquenza.
Meloni è tornata subito a Roma perché ha realizzato che nell’ultima settimana, nonostante impegni e promesse, l’Italia è rimasta più sola di sempre. Francia, Germania, Austria hanno blindato le frontiere con controlli di polizia ai valichi e pattuglie speciali lungo le rotte di terra usate dai profughi per raggiungere il nord Europa. Il vicepremier Salvini attacca a testa bassa i governi “traditori” dimenticando che chi tradisce da sempre, chi non accetta l’idea di condividere i flussi a livello europeo, sono i suoi alleati. E di Meloni.
L’Italia è sola perché anche il decalogo della von der Leyen è un bluff. Avere l’aiuto e i rinforzi di Frontex e dell’Agenzia per l’asilo a Lampedusa e nei luoghi di sbarco, significa condannare l’Italia a trattenere tutti gli sbarcati (una volta identificati sono a nostro carico, espulsione compresa). Mentre finora ci siamo arrangiati e almeno 4 migranti su 10 raggiungono subito i paesi del nord Europa come paesi di primo approdo.
Unica luce in questo buio della ragione è il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La due giorni in Sicilia con il presidente tedesco Steinmeier ha fissato alcuni semplici punti. Mattarella ha definito “preistoriche” e “fuori dalla realtà” le regole di Dublino sul soggiorno. “Voler regolare il fenomeno migratorio facendo riferimento agli accordi di Dublino è come dire realizziamo le comunicazioni in Europa con le carrozze a cavalli. Era un altro mondo quello”. Il “fenomeno epocale” come quello delle migrazioni va invece affrontato con una “visione del futuro” e soprattutto attraverso soluzioni che devono essere “naturalmente europee” perché nessun Paese può governare il fenomeno “da solo”. L’Unione ha una grossa responsabilità. “Nessuno ha la soluzione in tasca, nessuno – ha aggiunto il Capo dello Stato – può dettare indicazioni agli altri, ma insieme cercarle e velocemente, prima che diventi impossibile governare il fenomeno”. Ecco la vera sfida. Spogliata dai populismi e dai facili slogan. Steinmeier concorda.