In America non si è ancora finito di contare le schede che l’Europa metabolizza la vittoria di Donald Trump. Lo fa nella tana del lupo. Cioè a casa di Viktor Orban, a Budapest, sede in questi giorni della quinta riunione della Comunità politica europea e, a margine, di un summit informale del Consiglio Ue.

Draghi a Budapest

Scherzi del destino! Quando Bruxelles avrebbe avuto tutto il diritto della ribalta, per le audizioni di 22 su 27 dei candidati commissari, gli occhi del mondo si sono rivolti oltre l’Atlantico per seguire la corsa alla Casa Bianca. Così, in attesa di conoscere il futuro di Fitto, che sarà ascoltato dall’Europarlamento la prossima settimana, si torna a pendere dalle labbra di Mario Draghi, anche lui ieri ospite nella capitale ungherese per parlare di competitività. In realtà, sono stati molti i leader che hanno voluto dire la propria sulle rive del Danubio. In apertura di vertice, ancora giovedì, il presidente francese, Emmanuel Macron – ideatore due anni fa del format della Comunità politica europea, finalizzata a tener insieme membri Ue e non, tra cui Ucraina, Moldavia e Balcani Occidentali, ma anche Regno Unito e Turchia – ha destato curiosità per l’invito all’Europa a svegliarsi ed essere onnivora. Visto che il mondo è fatto di carnivori. E se restiamo erbivori, è facile immaginare la fine che possiamo fare.

La linea di Giorgia

Meno suggestiva, ma sulla stessa linea, è apparsa ieri Giorgia Meloni, che si è detta «convinta che l’Europa e l’Italia debbano riuscire a garantire la loro maggiore indipendenza». Posizioni simili che suggeriscono la volontà di procedere insieme – Italia, Francia e gli altri partner Ue – nel dimostrarsi ricettivi alle raccomandazioni che Draghi ha ribadito: «Quello che l’Europa non può più fare è posticipare le decisioni», ha detto, ovviamente riferendosi alle scelte di innovazione economica e industriale da intraprendere per contenere la Cina e contrastare il protezionismo Usa. In questo senso, la vittoria di Donald Trump è duale. Da una parte, spinge l’Europa a riflettere sui rapporti transatlantici, che certo cambieranno. «Non necessariamente in senso negativo», ha specificato Draghi. Dall’altra, porta a un riposizionamento dei singoli leader Ue. È logico che Orban in questi giorni cammini a un metro da terra. A Washington è tornato il suo grande amico.

L’alleato Salvini

Possibile quindi che si senta come un nano sulle spalle di un gigante e quindi in diritto di altre fughe in avanti, sulla scia di quanto già fatto finora. Ed è altrettanto matematico che Macron torni ad ambire a posizioni protagoniste. Proprio in antitesi a Trump. Soprattutto ora che il Cancellerie tedesco, Olaf Scholz, è in piena crisi di governo. Ben più complessa è la posizione della nostra premier. È vero che Fratelli d’Italia da sempre apprezza il Gop. Lo faceva già An. E che, in questi ultimi anni, si è legato a filo doppio con il Tycoon. Altrettanto valida risulta oggi la loro mossa, a luglio, di non sostenere, come conservatori, Ursula von del Leyen alla presidenza della Commissione. Proprio nell’eventualità di un ritorno di Trump alla Casa Bianca. E in modo da potersi discolpare oggi. Ma, c’è poco da dire, il vero alleato made in Italy di Trump è Matteo Salvini. Da qui le parole di Meloni ieri: «Credo che ci siano molte sfide… La domanda è se vogliamo dare gli strumenti agli Stati membri». Il punto però è che, in una visione di integrazione, alla Draghi style, strumenti e risorse andrebbero assegnati all’Europa, non agli Stati membri. Tant’è che Ursula von der Leyen ha indicato giugno come deadline perché la Commissione presenti un Industrial clean deal che segua le orme del Piano Draghi.

Vuoi però vedere che la destra moderata, i conservatori per intenderci, si è già rimessa a fare la destra-destra? È possibile un loro ritorno alle tattiche di bandiera, quali distinguo e veti, a cui i Patrioti ricorrono, mentre l’Ecr avevano scelto di riporre in un cassetto? Se così fosse, quali opzioni si presenterebbero ai popolari? E soprattutto ai dossier più urgenti. Quello ucraino primo fra tutti. Ecr e Ppe hanno sempre garantito l’inossidabile alleanza a Kyiv. Tuttavia, se Washington dovesse ridurre i fondi, trovare subito delle risorse alternative risulterebbe difficile per i governi Ue. Non tanto perché aumentare al 2% le spese della difesa sia impossibile. L’ha smentito Draghi. Ma è difficile farlo dall’oggi al domani. Ecco che allora una pace immediata, che Zelensky rigetta, apparirebbe come una soluzione economica di giustificazione alla perdita dell’onore.

Tuttavia, l’Europa rifiuta il declino ed è convinta – si legge nella dichiarazione finale del summit di Budapest – di poter mobilitare risorse e strumenti per tornare a essere grande. Senza annoiarvi nell’elencare tutti gli statement, la sintesi è che la buona volontà non manca e tanto meno la retorica. Le tensioni però sono tante. E le belle parole faticano a coprirle. Incertezze politiche ed economiche, ora anche la disgustosa “caccia all’ebreo” ad Amsterdam. C’è quasi da pensare che la vittoria di Trump sia il minore dei mali.