Il referendum sulla "legge scalpo"
Taglio dei parlamentari, non è scontato che vinca il si: negli anni affluenza sempre più scarsa
Una morte annunciata troppo presto? Il 20 e 21 settembre prossimi si svolgerà il referendum confermativo relativo alla legge di revisione costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari (deputati e senatori) nella misura di un terzo per ciascuna Assemblea. La consultazione non prevede alcun quorum, ai sensi dell’articolo 138.3 della Carta costituzionale, e la legge in oggetto non é stata approvata dai due terzi dei componenti di entrambe le Camere in doppia lettura; situazione creatasi a causa del cambio di maggioranza parlamentare, e di Governo, a cavallo dell’estate del 2019.
Molti commentatori danno per acquisito il risultato assumendo che la maggioranza di coloro che si recheranno alle urne opteranno per il Sì, ossia per la conferma della legge di revisione costituzionale. L’avversione per la classe parlamentare sarebbe tanta e tale da sostenere una “legge scalpo” fortemente voluta dal Movimento 5 stelle e sostenuta dal Partito democratico come atto negoziale per saldare la nascitura alleanza parlamentare. Del resto, lo stesso Pd aveva sostenuto la riduzione del numero di eletti sebbene all’interno di un disegno di riforma delle istituzioni più articolato e ampio nel 2016, ma si era opposto al Senato alla legge recentemente approvata. Se consideriamo dunque che il quorum del 50% non è necessario ai fini della validità del referendum rimane rilevante concentarsi sulla quantità poiché da essa può dipendere la qualità del voto, ossia l’esito della riforma. Dal referendum istituzionale del 1946 e fino al 1995 (tranne la parentesi del 1990 su caccia e pesticidi) alle urne hanno partecipato sempre ampie maggioranze di elettori; da allora la soglia della metà degli aventi diritto è stata superata solo nel 2006 (riforma costituzionale “Berlusconi”), nel 2011 (acqua pubblica e legittimo impedimento) e nel 2016 (riforma costituzionale “Renzi”), ossia tre momenti di forte polarizzazione ideologica e personalizzazione della campagna elettorale (vedi il grafico in basso a destra). Oggi l’unico argomento sostanziale dei promotori della riforma è il presunto risparmio economico, risibile invero, e una ancor meno argomentabile e argomentata futuribile efficacia decisionale delle Camere in formato ridotto, mentre de facto in questi mesi il sistema parlamentare ha legiferato come fosse in assetto monocamerale.
Al netto dei rilievi relativi ai rischi di sproporzione nell’accesso alla rappresentanza di interi territori, di riforma e funzionamento delle Commissioni parlamentari, il punto focale del fervore anti-parlamentare è diretto contro la classe parlamentare, politica e istituzionale per sé. Del resto i sostenitori della riforma sono i cosiddetti grillini che hanno nel proprio Dna il populismo peronista e una carica anti-sistema da ribellismo giovanilista, a tratti dannunziano, ma senza poesia né ardore. Per cui la scommessa è che gli elettori si comportino come nel biennio 1991-1993 allorché votarono in massa per riformare il sistema elettorale, ma nella sostanza optarono per la scelta che gli consentisse di scagliarsi contro la partitocrazia, conoscendo poco o punto le caratteristiche e le conseguenze dei sistemi elettorali in discussione.
In questa chiave, oltre che in una meritoria e parca decisione di sobrietà, va interpretata la scelta di indire le consultazioni regionali nello stesso giorno del referendum costituzionale. Tuttavia, la scommessa del M5s di avere un risultato acquisito potrebbe non essere così certa come sembrerebbe indicare una profezia che si dovrebbe auto-avverare. I partiti che sostengono apertamente il Sì sono il M5s e, pur a malavoglia, una parte del Pd all’interno del quale una agguerrita componente è mobilitata per il No.
La Lega (Nord) è silente, ossia ha dato mandato ai suoi sul territorio di boicottare la riforma per sabotare la maggioranza parlamentare e sfilare un risultato dal carniere del Movimento 5 stelle che isserebbe la bandiera populista sin sopra Montecitorio. Forza Italia viaggia per bande isolate e in latente conflitto fratricida, Italia Viva lacerata dall’avere perso la paternità di una parte della riforma proposta nel 2016 è poco incline a lasciare spazio al M5s e dunque sostiene il No, mentre Fratelli d’Italia è indecisa se seguire l’onda del “popolo” ovvero mantenere o meglio ritrovare una postura istituzionale. Ne consegue che anche sul piano geo-elettorale il sostegno potenziale derivante dal partito che maggiormente sostiene il Sì al referendum si riduce a sole due regioni, Puglia e Campania, ossia dove i “grillini” sono piu insediati. Mentre, nel resto delle regioni al voto (Veneto, Liguria, Marche e Toscana) l’influenza maggiore proviene da Lega e Pd che, come detto, sono quantomeno tiepidi e tormentati sugli esiti della riforma. Se a questo aggiungiamo che in questo tipo di consultazioni pesa molto il voto degli elettori che si mobilitano “contro”, risulta evidente che possa essere altrettanto forte la voglia di mobilitarsi per il No, adducendo argomenti relativi alla difesa delle istituzioni. Certamente le ragioni del Sì sono appetibili per l’orco onnivoro populista, ma potrebbe non bastare a mobilitare. L’astensione crescente potrebbe colpire in maniera “differenziata”, ossia affliggere le fila dei “riformatori” in misura maggiore rispetto agli “oppositori” i quali hanno come unica arma quella di provare a “politicizzare” la partita e la campagna elettorale. E poi, statene certi, i deputati e i senatori, e nemmeno gli aspiranti tali, non si mobiliteranno, non solleciteranno le loro reti sociali.
La base di partenza dei “riformatori” è in parte quella del Sì e in parte quella del No al referendum promosso dal duo Renzi-Boschi, ma quell’esito fu fortemente influenzato sul giudizio contro il presidente del Consiglio, un referendum/plebiscito, che pure lo stesso leader del Pd aveva impudentemente invocato su di sè. Insomma, come certificato da molte ricerche sul tema, il No del 2016 fu specialmente contro Renzi e non contro le riforme. Questa volta potrebbe esserci una dinamica analoga e contraria: un voto per difendere lo status quo o una reazione di chiusura e di rigetto nel merito considerando che la riforma va accompagnata da altri interventi mirati, ma importanti.
Certamente, come sempre in queste occasioni, è importante distinguere tra l’elettorato e l’elite, posto che l’attivismo di questa ultima sembrerebbe indicare un clima crescente favorevole al No. La base profonda dell’elettorato potrebbe invece accettare di sferrare un colpo di macete ai rappresentanti, purché sia, senza entrare nel merito, ma sposando il metodo. Le vicende dei giorni scorsi relative al comportamento di taluni parlamentari (ma bisognerebbe ricordare che un quarto delle aziende che ha chiesto la cassa integrazione non aveva diritto) indicano un rafforzamento del fuoco anti istituzionale che soffia da decenni, ma l’esito non è scontato. Il referendum del 2020 è dunque onusto di dubbi più di quanto molti immaginino o credano, gli elettori italiani potrebbero sorprendere ancora.
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