La Regione che non cede
Talebani, la resistenza del Panshir: a nord di Kabul l’ultima opposizione ai jihadisti

L’aeroporto di Kabul – dove proseguono i voli di evacuazione militare – è ancora l’epicentro del caos afghano. I talebani impediscono ai civili di raggiungerlo. Anche ieri hanno sparato in aria per cercare di controllare la folla radunata agli ingressi dell’aeroporto, mettendo in fuga uomini, donne e bambini. Capita che, nel tentativo di metterli in salvo all’estero, alcune madri lancino i loro bambini oltre le barriere chiedendo ai soldati di prenderli. E alcuni dei piccoli restano impigliati nel filo spinato.
«Questa è una grave crisi umanitaria. Le operazioni di tutela dei civili afghani in pericolo e la loro evacuazione rimangono l’obiettivo primario, soprattutto per le categorie più a rischio come i bambini e le donne». A parlare è Tommaso Claudi, il console d’Italia a Kabul, che in questi giorni ha messo in piedi un ponte aereo per evacuare diverse centinaia di persone: connazionali, personale italiano e afghano delle istituzioni italiane, esponenti della società civile. La Russia si è offerta di fornire i suoi aerei per condurre gli afghani disposti a lasciare il paese verso qualsiasi nazione che li voglia ospitare. Gli Stati Uniti impegnano truppe, aerei da trasporto e comandanti per mettere in sicurezza l’aeroporto e avviare un ponte aereo in grado di trasportare tra le 5 mila e le 9 mila persone al giorno. Per molti potrebbe essere l’ultima occasione di fuga: il ritiro americano dovrebbe completarsi, infatti, entro il 31 agosto.
Come spiega all’Associated Press Rebecca Heller, guida dell’International Refugee Assistance Program con sede negli Stati Uniti, circa 100 mila civili locali cercano l’evacuazione attraverso un programma di visti Usa pensato per fornire rifugio a chi aveva lavorato con gli americani e alle loro famiglie. La stessa Heller racconta di cinque traduttori afghani uccisi dai talebani negli ultimi due giorni. Il motivo? Aver lavorato per gli americani. A conferma di questo clima, un documento confidenziale dell’Onu, diffuso ieri dalla Bbc, avvisa che i talebani stanno intensificando la caccia a tutti i collaboratori delle forze americane e della Nato. «I talebani li arrestano o minacciano di ucciderli o di arrestare i loro familiari se non si consegneranno», si legge nel testo preparato dal Norwegian Centre for Global Analyses che fornisce analisi d’intelligence all’Onu. Il documento spiega che i talebani, prima ancora di conquistare le città, avevano preparato delle mappe delle persone da catturare, specie tra quanti ricoprono ruoli nell’esercito e nella polizia.
Secondo il rapporto, i talebani sono attivi in queste ore nel reclutamento di una nuova rete d’informatori da mettere a disposizione dei rastrellamenti del nuovo regime. In più, in vista della preghiera del venerdì, i talebani hanno fatto pressione ieri su tutti gli imam al fine di esortare i fedeli in moschea a collaborare con il loro nuovo governo. «Chiediamo agli onorevoli predicatori di pronunciare domani sermoni esortando i cittadini a cooperare per la costruzione della nazione», si leggeva nel messaggio del Comitato per il sostegno, la guida, il reclutamento, il godimento del bene e la proibizione del male, diffuso dall’account Twitter dei talebani e rilanciato dalla Cnn. Sempre ieri, i talebani hanno cercato di mettere il cappello sulle celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza nazionale, conquistata nel 1919 con la liberazione dal dominio britannico. «Fortunatamente, oggi celebriamo l’anniversario dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Allo stesso tempo, come risultato della nostra resistenza jihadista, abbiamo costretto un’altra potenza arrogante del mondo, gli Stati Uniti, a fallire e a ritirarsi dal nostro sacro territorio dell’Afghanistan»: così si legge in una nota ufficiale dei leader talebani. Il piano propagandistico di autocelebrazione è però fallito a causa delle proteste.
La resistenza afghana, infatti, approfittando della ricorrenza, si è organizzata in alcune città sventolando la bandiera nazionale e provocando le reazioni violente dei jihadisti. Sempre la bandiera nazionale è stata la protagonista della protesta di un corteo di auto e persone vicino all’aeroporto di Kabul che, in gesto di sfida, hanno teso lunghi striscioni neri, rossi e verdi: i colori nazionali dell’Afghanistan. Manifestazioni simili si sono svolte nelle province di Nangarhar, Khost e Kunar dove le milizie jihadiste hanno risposto con il coprifuoco o sparando sulla folla. Fin qui si è trattato di forme di resistenza spontanea e improvvisata. C’è, però, una zona del paese in cui i talebani non sono ancora riusciti a sfondare: si tratta del Panshir, regione a nord est di Kabul. Ieri, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha confermato che nel Panshir «sono concentrate le forze di resistenza del vicepresidente Saleh e di Ahmad Massoud». Anche per questo, Lavrov caldeggia «un dialogo nazionale che permetta la formazione di un governo rappresentativo».
I due leader citati da Lavrov sono l’autoproclamato presidente ad interim Amrullah Saleh, già vice del governo del fuggitivo Ashraf Ghani, e Ahmad Massoud, figlio di Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir, capo della resistenza ucciso dai talebani due giorni prima dell’attentato dell’11 settembre 2001. Il giovane Massoud ha lanciato ieri un appello agli Usa per chiedere rifornimenti di armi. In un editoriale pubblicato dal Washington Post, Massoud afferma che «l’America può ancora essere una grande promotrice della democrazia» sostenendo le forze della resistenza e avverte che molti soldati governativi afghani «disgustati dalla resa dei loro comandanti» si sono uniti a lui. Massoud è pronto per sfidare i talebani, ma, ricorda, «abbiamo bisogno di più armi e munizioni». L’America che prepara il ritiro – i sondaggi rivelano che la gran parte degli statunitensi è favorevole – sembra troppo stanca, oggi, per rispondere a questo appello.
© Riproduzione riservata