Ambiente
Tanti costi, poco lavoro: la nuova energia in Europa è una chimera
Cittadini e imprese non ne sono i protagonisti. L’Ue non si è affermata come leader mondiale nel comparto delle tecnologie pulite: così rischia di rimanere sempre più chiusa e isolata
Dieci anni fa il Consiglio Europeo lanciava la strategia “Unione dell’Energia”, la madre di tutte le direttive e regolamenti che, negli anni a seguire, avrebbero tracciato la strada della transizione energetica europea. L’obiettivo dichiarato della strategia era quello di realizzare una trasformazione radicale del sistema energetico. Quest’ultimo sarebbe dovuto passare da una “gestione centralizzata di tecnologie fossili” a un assetto più decentralizzato e decarbonizzato con protagonisti i consumatori: famiglie e imprese proprietari di piccoli impianti di produzione rinnovabile e dotati delle più avanzate tecnologie per la gestione intelligente ed efficiente dei propri consumi. Nell’idea del Consiglio, questo nuovo paradigma avrebbe garantito ai cittadini europei di soddisfare il proprio fabbisogno energetico in modo sicuro, pulito ed economico. E, all’Unione Europea, di divenire “il polo mondiale per lo sviluppo di energie rinnovabili competitive e tecnicamente avanzate” nonostante contribuisca al solo 7% delle emissioni globali di CO2.
Alle soglie del rinnovo del Parlamento e della Commissione Europea, i dieci anni dall’Unione dell’Energia offrono l’occasione per una riflessione sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi che l’allora Commissione Juncker si poneva. Cittadini e imprese si sono trasformati nei protagonisti della transizione energetica? E la UE è poi diventata il leader globale delle tecnologie rinnovabili? Rispondere a queste domande (spoiler: la risposta è no) è una opportunità per comprendere qualcosa di più sul percorso di decarbonizzazione della UE e su come potrebbe evolvere l’approccio alla politica energetica delle nuove istituzioni europee. L’energia, infatti, è il tema tra i più sentiti dagli elettori europei e come su questo si esprimeranno i nuovi candidati alla guida dell’UE potrebbe essere un fattore decisivo nell’orientare le preferenze elettorali. Da un recente Eurobarometro emerge, infatti, che la lotta al cambiamento climatico è considerata tra le questioni cruciali per il futuro della UE e che per nove cittadini su dieci le politiche energetiche europee dovrebbero perseguire, oltre alla riduzione nell’uso delle fonti fossili, anche prezzi dell’energia più convenienti. Dal 2014 in poi si sono susseguiti numerosi interventi che hanno reso sempre più ambiziosi gli obiettivi di decarbonizzazione europei. In questa direzione, la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen è stata particolarmente prolifica. È sotto la sua presidenza, infatti, che nel 2019 è stata adottata la prima Legge sul Clima che impegna la UE a ridurre del 55% le emissioni al 2030 e a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050. Solo tre anni dopo, a causa della crisi energetica scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, la Commissione approva il Piano REPowerEU con il quale sono resi ancora più sfidanti i target al 2030: 42,5% di fonti rinnovabili nei consumi finali lordi di energia (rispetto al 32% fissato nel 2021 dal Pacchetto Fit-for-55 attuativo della Legge sul Clima); 11,7% di riduzione dei consumi finali di energia (rispetto al 9% precedente). Con i nuovi obiettivi, la transizione energetica diviene lo strumento privilegiato della UE per conseguire l’affrancamento dalle fonti fossili (gas in particolare) e dai Paesi esportatori.
Tuttavia, nonostante obiettivi di decarbonizzazione sempre più sfidanti, il sogno dell’allora Commissione Juncker non si è avverato. Cittadini e imprese europee, infatti, non sono diventati i protagonisti della transizione energetica. E l’Europa non è diventata la leader mondiale nel comparto delle tecnologie pulite. A oggi, infatti, è ancora esigua la percentuale di impianti di generazione elettrica rinnovabile installati presso le utenze di clienti residenziali, commerciali o industriali: solo il 3% dell’elettricità prodotta nella UE proviene da impianti di autoproduzione. Ai mancati risparmi che una maggiore diffusione della generazione elettrica distribuita avrebbe potuto garantire a famiglie e imprese si sommano, poi, i costi diretti della transizione che vanno in larga parte a scaricarsi sulle bollette. La Commissione stima che per la messa a terra del Pacchetto Fit-for-55 e del Piano REPowerEU saranno necessari investimenti annui per circa 620 miliardi di euro di cui la fetta più grande è destinata allo sviluppo di nuovi impianti di generazione elettrica rinnovabile e delle reti di trasmissione e distribuzione necessarie ad accogliere la nuova capacità di produzione. Tutti maggiori costi, questi, che nel caso delle imprese si riflettono in una perdita di competitività sui mercati globali.
Oltre ai mancati risparmi promessi dall’Unione dell’Energia, la transizione energetica sembra non avere neppure prodotto quei benefici diretti, legati soprattutto alla creazione di occupazione, di nuovi mercati e di ricchezza più in generale, che sarebbero dovuti conseguire dalla posizione della UE come leader globale delle tecnologie pulite. Secondo un recente rapporto IRENA i posti di lavoro creati nel 2023 dalla transizione energetica sono stati pari a circa 14 milioni. Di questi, circa 5 milioni sono in Cina dove è presente circa il 60% della capacità produttiva di pannelli fotovoltaici, una quota crescente di quella per le pale eoliche (la quota della UE è scesa dal 58% del 2017 a circa il 30% nel 2022), il 98% delle terre rare e il 97% del magnesio necessari alla realizzazione delle tecnologie green. A parità di altre condizioni, è l’assenza di competenze qualificate ad avere causato il mancato sviluppo di quella filiera industriale che avrebbe permesso all’UE di giocare un ruolo di maggiore rilievo a livello mondiale nel comparto delle tecnologie pulite. Come affermato recentemente dalla Commissione Europea, la scarsità di forza lavoro e competenze (c.d. labour and skill shortage) che incontri adeguatamente la domanda di occupazione sta crescendo drammaticamente negli Stati Membri e concerne in larga misura professioni qualificate e funzionali alla transizione energetica. Tanto più alla luce della crescente affermazione della digitalizzazione e automazione dei processi produttivi che anche nel comparto energetico sono destinati a riscrivere le regole del mercato del lavoro.
È quindi urgente che il prossimo Parlamento Europeo e la Prossima Commissione Europea pongano al centro della propria agenda il tema dei costi e dei mancati benefici della transizione energetica. A partire da una revisione delle sue tempistiche – tanto più stretti i tempi e più ambiziosi gli obiettivi, tanto maggiori i costi per famiglie e imprese. A dovere essere celeri, invece, sono i tempi con cui attuare in tutti gli Stati Membri il recentissimo Action plan on skills and labour shortages della Commissione Europea che prevede un insieme di misure legislative e non per dare soluzione al problema. Senza il capitale umano necessario, l’Europa non potrà mai sviluppare una filiera industriale delle tecnologie pulite e sarà destinata a essere sempre meno competitiva e più subalterna sui mercati globali. Perderemo, così, il treno della transizione verde e pure quello della transizione digitale. Con il risultato di un’Europa sempre più chiusa, sempre più isolata e che continuerà a vedere solo i costi di una transizione che da sempre si è cantata e suonata.
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