Tax or tariff? L’utopia di Trump è un flashback all’America dell’Ottocento

A supporter waits to enter a campaign rally for Republican presidential nominee former President Donald Trump, Sunday, Nov. 3, 2024, in Macon, Ga. (AP Photo/Mike Stewart)

È la sera di Halloween. A Houston, Texas, la famiglia Jones – madre, padre, due figli, un mutuo prossimo all’estinzione, 80mila dollari di reddito – si prepara a fare il giro del quartiere. Suonano alla porta. «Tax or tariff?» È Donald Trump, che va di casa in casa per convincere gli ultimi indecisi. Tax or tariff? L’alternativa è allettante. Per Mister Jones, come per tutti gli elettori statunitensi che pagano l’inflazione di questi ultimi anni e prima ancora il Covid. E per i quali la ripresa dell’economia tarda a farsi sentire.

Il suo slogan più sexy

Il dolcetto-scherzetto non è l’ultima trovata che Trump estrae dal cilindro. È un’idea di lunga data che si era fatta concreta già al tempo del suo primo mandato. Oggi però, il tycoon ha deciso di farne il suo slogan più sexy. Il secondo atto del Make America Great Again deve passare da una guerra commerciale a tutti i prodotti di importazione. Un conflitto che non prevede prigionieri, né deroghe, in cui il primo nemico è la Cina. Il tutto con il duplice obiettivo: 1) bloccare alla frontiera i prodotti stranieri, che nel modello dell’America first non sono di qualità, 2) trasformare i dazi in un’entrata che compensi le vagheggiate politiche di defiscalizzazione.

Tuttavia, il trucco non regge. Lo scriveva ancora a giugno il Peterson Institute for International Economics: “I dazi si applicano ai beni importati, che hanno totalizzato 3,1 trilioni di dollari nel 2023. L’imposta sul reddito, invece, viene applicata ai redditi che complessivamente superano i 20 trilioni di dollari e da cui attualmente, il governo Usa raccoglie circa 2 trilioni di dollari dalle imposte sul reddito individuale e aziendale. È letteralmente impossibile che i dazi possano sostituire completamente le imposte sul reddito”. Le tariffe doganali dovrebbero essere incredibilmente alte, rispetto a una quota di import che, proprio per colpa dei dazi, andrebbe a ridursi progressivamente. A contrasto di questa flessibilità perniciosa e volatile del modello, resterebbero invece una spesa pubblica rigida e un debito pubblico in crescita. Contestualmente i prezzi dei beni importati, maggiorati dalle tariffe doganali, andrebbero a pesare su quelli dei beni domestici, riavviando quindi l’inflazione. Si ridurrebbero inoltre gli investimenti in ricerca e innovazione in quei settori in cui gli Stati Uniti sono leader. Le nuove tecnologie, per intendersi.

Il tutto perché il candidato repubblicano è convinto che la vecchia e arrugginita industria pesante possa sopravvivere così com’è e non essere riconvertita. Questo va inserito in uno scenario di guerra commerciale globale. Finora la Cina ha reagito solo in parte alle provocazioni protezionistiche. Di cui, sia chiaro, l’Amministrazione Biden non è stata immune. Ed è certo che Harris continuerà con questa posizione muscolare. Tuttavia, se i dazi dovessero aumentare – oltre il 60% o di più come proposto da Trump – Pechino avrebbe tutte le carte in regola per reagire. «Il programma tariffario di Trump creerebbe un nuovo rialzo dei tassi di interesse», commenta Giorgio Arfaras, economista del Centro Einaudi. «Con il dollaro valuta di riferimento mondiale, gli aumenti dei tassi negli Stati Uniti si rifletterebbero globalmente, innalzandoli anche altrove, mettendo in difficoltà i Paesi con debito in dollari, soprattutto quelli in via di sviluppo».

Un flashback all’America dell’Ottocento

Ancora nel 1913, con la ratifica del 16esimo emendamento alla Costituzione, gli Stati Uniti passarono da un modello di entrate pubbliche basato sui dazi a uno basato su un’imposta sul reddito progressiva. Questo creò una struttura fiscale più progressiva e aprì l’economia Usa ai mercati stranieri. Le idee di Trump sono un flashback all’America dell’Ottocento. «Negli anni Trenta, le principali entrate fiscali federali derivavano dalle accise sugli alcolici e dalle tariffe doganali. Poi, con il proibizionismo, le entrate crollarono, portando alla decisione di revocare il divieto e lasciare che la gente riprendesse a bere», aggiunge Arfaras. Un recente sondaggio Ap-Norc ha rivelato che il 48% degli elettori ritenga Trump più abile nell’economia. Caro Mr. Jones è il caso di chiedertelo: Tax or tariff? Non è uno scherzetto.