WIMBLEDON – Tre giorni fa si aggirava uno strano bus a due piani nelle vie di Kensington. Tradizionale colore rosso Londra, a bordo aveva una dozzina di signore più verso gli ottanta che i settanta, eppure sorridenti e con lo sguardo lungo di chi non solo coltiva il domani ma sa di “aver fatto la differenza nel passato”. Si chiamano Ilana Kloss, Rosie Casals, Penny Moore, Alicia Boston e una più vispa e ardita delle altre che si chiama Billie Jean King. Hanno un tratto in comune: hanno giocato a tennis come professioniste. E infatti quando scendono, tirano fuori le racchette – qualcuna anche di legno e in metallo – e toccano la palla con fugaci e sempre precise volee -. Soprattutto ridono e si emozionano: sono nel piazzale dell’ex Gloucester hotel dove tutto è iniziato ben cinquanta anni fa.

Era il 1973 quando nove tenniste decisero che era l’ora di finirla con Rod Laver che vinceva 2mila sterline a Wimbledon nel ’68 mentre Billie Jean King, anche lei numero 1, ne vinceva 750. Le signore del tennis fecero una lunga lista di distanze e differenze e dissero “mai più”. Fu la prima volta che si parlò di equal pay. Erano nove, oggi dette le “original nine”: Billie Jean King, già numero uno della classifica, Rosie Casals (sua compagna di doppio) Peaches Bartkowicz, Judy Dalton, Julie Heldman, Kerry Melville Reid, Kristy Pigeon, Nancy Richey and Valerie Ziegenfuss. Nacque così la Woman tennis Association (Wta), il sindacato delle tenniste che oggi più che mai, come la Atp per gli uomini, decide, protegge e custodisce la vita delle oltre mille giocatrici professioniste che danno vita al circuito.

Sarà un lungo anno questo per la Wta, il suo presidente Steve Simon e tutto il board. Celebrare i 50 anni della Wta e di quella battaglia dei sessi, sarà un po’ come “rinascere” dopo anni molto difficili per il tennis femminile, vuoi per l’uscita di scena delle campionesse iconiche, da Maria Sharapova a Serena Williams, vuoi per il Covid e il gelo con la Cina dopo il caso Peng Shuai (la giocatrice di tennis scomparsa dopo aver denunciato per violenza sessuale il numero 3 del Partito comunista).

Billie Jean ci mette del suo, qui a Londra, a fine agosto a New York ci sarà l’apoteosi. Ovunque vada sono interviste, memorie e progetti. “Abbiamo fatto e continuiamo a fare la differenza” ha detto l’altro giorno tornando al Gloucester hotel 50 anni dopo. Un bellissimo libro “All in, un’autobiografia” (ed Nave di Teseo) racconta il film della sua vita e di quella magnifica rivoluzione.

Anche la Wta cerca di essere all’altezza. E sta mettendo a segno alcune mosse interessanti. Ad esempio raffinare il sistema per cui le giocatrici che desiderano diventare mamme possono “congelare” la propria classifica e poi tornare a competere nei tornei entro tre anni dalla nascita del figlio partendo da dove avevano lasciato. La prima richiesta in tal senso arrivò nel 2018 da Serena Williams numero 1 al mondo e già incinta quando vince Ausopen nel 2017 e, una volta partorito, torna a giocare e a vincere partendo dalla posizione n.453.

Oggi a Wimbledon sono 5 le giocatrici “mamme” in campo: Elena Svitolina, Viktoria Azarenka, Tajana Maria (bis mamma); Barbora Strycova, Yanina Vickmayer. Grazie alle nuove regole la danese Carolina Wozniacki, 32 anni, numero 1 del mondo nel 2012 e anche nel 2018, due volte mamma e fuori dalle gare dal 2020, ha già detto: “Tornerò presto in campo per vincere”. Potrebbe fare lo stesso Naomi Osaka, la giovanissima nippo-americana, ex numero 1 del mondo travolta dalle crisi di panico fino a dire “basta competizioni” e ora felicemente in attesa. La Wta ha un obiettivo: fare del tennis un posto di lavoro, in tutti i sensi. La maternità è una scelta e va supportata. Vedremo.

Un altro segno di attenzione lo ha mostrato la direzione del torneo di Wimbledon che risponde storicamente solo a se stesso e alla Casa reale, né alla Wta né alla Itf. Per la prima volta è arrivata una deroga al dress code del bianco. Ebbene sì: le giocatrici potranno indossare biancheria intima – leggi nello specifico mutande – di color nero o altro “purché non sbuchi dal gonnellino o dall’abito o dal calzoncino” che restano rigorosamente bianchi. La concessione è stata fatta per evitare sgradevoli “incidenti” alle giocatrici in campo mentre hanno il ciclo. “Vivaddio… l’anno scorso ho preso la pillola per fermare l’emorragia perché sapevo che dovevo indossare mutande bianche e non volevo alcun imbarazzo” ha detto l’inglese Watson. “L’anno scorso ero sempre in bagno a controllare” ha detto la giovanissima Coco Gauff.

Ieri le mutande nere hanno esordito sul Centre court addosso alle defending Champion Helena Rybakina. Aryna Sabalenka, numero 2 del mondo, le ha indossate verdi. Magnifico. Meno contenta è stata Hons Jabeur, la giocatrice tunisina, numero 6 al mondo, una che già adesso sta facendo molto per il suo paese: “Questa nuova regola ci imbarazza perché si saprà chi ha il ciclo o meno. E per noi musulmani questo è un problema”. Problema risolto: sarà una libera scelta con liberi colori. A prescindere, insomma.

Claudia Fusani

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