In Birmania la terra trema da decenni e un vero assestamento non c’è mai stato. Il Paese era già in ginocchio, inerme, quando alle 12:51 di venerdì scorso, milioni di vite sono cambiate per sempre. La catastrofe, nella sua devastazione, ci sbatte in faccia la realtà e spalanca gli occhi della comunità internazionale, rivolti adesso, ma chissà ancora per quanto, verso un mondo rimasto a lungo ignorato. Molti storici concordano nel definire il conflitto interno birmano come la più lunga guerra civile esistente: uno scontro che si protrae da prima che lo Stato arrivasse a raggiungere la sua indipendenza.

Dall’indipendenza alla dittatura

Una battaglia tra etnie con culture, lingue, religioni differenti, figlia della lontana amministrazione coloniale britannica, che aveva tracciato una gerarchia delle popolazioni locali sulla base delle loro caratteristiche somatiche. Il destino è sembrato volersi prendere gioco di questo Paese fin dalla sua nascita. L’eroe dell’indipendenza birmana, nonché fondatore delle forze armate nazionali, Aung San, aveva firmato, nel 1947, un accordo per unire sotto una sola nazione alcune delle minoranze locali più numerose, garantendo loro piena autonomia. Venne assassinato, però, prima di poter vedere l’alba dello Stato birmano, l’anno successivo. E così il Paese imparò da subito a riconoscere il sapore del sangue, in preda a una guerra etnica-civile che non sarebbe mai cessata del tutto. A prendere il potere, nel 1962, furono i militari del generale Ne Win, che instaurò una dittatura socialista.

Di padre in figlia

Quasi trent’anni di scontri, espulsioni razziali, isolazionismo e nazionalizzazione delle imprese, che trascinarono l’economia locale nel baratro. Poi nel 1988 il vento del cambiamento iniziò a soffiare con l’avvento di Aung San Suu Kyi, simbolo per eccellenza della democrazia birmana nella mentalità collettiva: decise di fondare la “National League for Democracy” (NLD), il partito che avrebbe combattuto contro la dittatura. Lei, figlia del fondatore della Birmania, Aung San, destinata a scontrarsi coi generali dell’esercito, il Tatmadaw, che il suo stesso padre aveva istituito. Lo Stato venne investito da un’ondata di proteste: una rivolta di massa repressa con un golpe dalla Giunta militare che, da quel momento, non smise mai d’intralciare il progresso del Paese. Neanche quando, nel 2015, Suu Kyi riuscì a diventare Consigliera del governo, in seguito alle prime elezioni democratiche riconosciute.

L’ultimo golpe e il buio pesto

Poi il colpo di stato del 2021, condotto dal generale Min Aung Hlaing, dopo aver dichiarato invalide le votazioni di qualche mese prima, stravinte dalla NLD. Suu Kyi e gli oppositori furono arrestati, il Governo di Unità Nazionale, legittimato dal popolo, venne esiliato. E da quel momento fu buio pesto. Davanti alla catastrofe senza precedenti di pochi giorni fa, la Birmania è sola. L’isolamento internazionale a cui la Giunta ha costretto il Paese per decenni, adesso rischia di costare caro nel momento del massimo bisogno. Gli strumenti di soccorso inviati da tutto il mondo sono controllati dall’esercito, soprattutto quelli indirizzati alle aree occupate dai ribelli e così sarà anche per gli aiuti economici, quando arriveranno. È eloquente come molti birmani abbiano associato il terremoto a una sorta di punizione divina contro la Giunta, che continua a combattere contro i gruppi armati etnici e di resistenza, anche mentre migliaia di persone scavano, qualcuno a mani nude, tra le macerie di un Paese in frammenti da quando è nato.