Marco Minniti, sottosegretario ai servizi segreti con Renzi, ministro agli Interni con Gentiloni, intanto ti chiederei una panoramica generale su un’Europa che, sul fronte terrorismo, a differenza di allora si trova a fare i conti con due conflitti, uno in casa con l’invasione russa all’Ucraina e uno alle porte, quello di Israele.

«La situazione è senza precedenti, dopo la seconda guerra mondiale non abbiamo mai dovuto affrontare due conflitti. L’attacco di Hamas al cuore di Israele ha rinvigorito giacimenti di odio, non essendovi alcun interesse all’esito politico della questione palestinese, l’unico obiettivo è colpire al cuore e cancellare Israele dalla carta geografica del mondo. L’uso dell’orrore per praticare e diffondere il terrore ha riaperto la dinamica di un conflitto profondamente religioso. Hamas ha sposato fino in fondo il radicalismo religioso e questo è un messaggio partito e arrivato a migliaia di chilometri di distanza, e tutto ciò non perché ci sia una forza assoluta di Islamic State, sconfitta militarmente negli anni scorsi, ma mai cancellata dalla storia del pianeta. Per chi ha dubbi si guardi anche all’Afghanistan, principale incubatore oggi di Isis che ne controlla pezzi di territorio, e all’Africa centro settentrionale, dove Al Qaida e Isis hanno varie strutture autoctone che le rappresentano. In questo ambito quelle immagini drammatiche, l’idea di un conflitto di annientamento fondato sul principio del martirio e della religione, ha riattivato i lupi solitari, ovvero il principale problema degli anni passati, persone radicalizzatesi magari non in moschea ma davanti a un computer».

A quell’epoca non c’erano delle guerre in corso come adesso ma l’attacco dell’Isis colpì al cuore l’Europa, e l’assassinio dell’insegnante a Parigi o dei tifosi svedesi a Bruxelles ci dicono che si ritorna ad attaccare fisicamente le persone nelle capitali europee.
«C’è una piccola analogia anche riguardo il punto di inizio di tutto. Isis nasce e si rafforza nella guerra civile in Siria e in Iraq, il punto di partenza è sempre una guerra, se poi è una guerra civile con forti elementi di contenuto religioso è ancora più evidente questo percorso. Ricordiamoci dell’idea di Al Baghdadi, per cui lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante poi diventa Islamic State tout court, dunque scollegandolo da un pezzo di mondo e rivolgendosi a tutti perché il fine è la realizzazione del califfato mondiale. Da lì parte l’idea che Isis poteva anche non contare su una direzione strategica, aveva tuttavia la capacità di attivare anche indirettamente l’emulazione e l’idea del gesto simbolico. Hamas il 7 ottobre ha sferrato un attacco con migliaia di suoi uomini entrati in Israele, la gran parte dei quali sapeva che l’obiettivo non era tornare nella striscia di Gaza ma il proprio martirio. Una sorta di martirio collettivo, ancora più aggravato dal dubbio concreto che l’attacco all’ospedale di Gaza non sia stato fatto dagli Israeliani ma da un missile della Jihad che ha perso il controllo. Ecco su questo sarebbe giusto ci potesse essere una commissione internazionale».

Anche perché la modernità ci fornisce strumenti utili a conoscere la verità
«Non dobbiamo rinunciare ad averla. Perché è un evento talmente cruciale, traumatico, che ha girato le piazze non a caso, perché le piazze delle grandi capitali arabe sono quelle che alimentano anche il gesto individuale del lupo solitario. Nel terzo millennio non è accettabile che centinaia di civili muoiano in ospedale e non si sappia per mano di chi».

I giornali della destra, in ottica anti migratoria, puntano il dito sullo sbarco a Lampedusa dell’attentatore di Bruxelles, rilevando una differenza con quanto accaduto nel recente passato dove invece quei soggetti erano figli dell’Europa e vivevano nelle periferie di Parigi e Bruxelles.
«Io continuo a pensare che i terroristi non arrivino con i barconi e la vicenda di Bruxelles non mi smentisce. L’attentatore arriva a Lampedusa nel 2011, ben 12 anni fa, ed è in Europa che si è radicalizzato, non in Tunisia. Non ha funzionato lo strumento congiunto di integrazione e legalità. il primo è un fondamento per la sicurezza, chi meglio integra è più sicuro nel presente e nel futuro, basta soltanto guardare alla vicenda francese, alle banlieue, ad una immigrazione non regolata e non costruita. Infatti e non a caso l’attentatore di Bruxelles viveva in un quartiere vicino a quello di Molenbeek, ghetti dove la legge non esiste. Il secondo aspetto riguarda le pratiche di un principio di legalità. Il problema non è l’arrivo a Lampedusa ma il fatto che le forze di polizia belghe avevano intercettato la sua radicalizzazione e l’avevano convocato per il giorno dopo l’attentato, a testimonianza di una fragilità del sistema di sicurezza belga, ma anche svedese e francese, se è vero che l’attentatore francese era segnalato con la S come soggetto pericoloso. Porre oggi il tema dei terroristi che arrivano con il barcone a Lampedusa corre il rischio di creare esattamente il problema opposto a ciò che si vuole risolvere, ovvero di creare un cordone sanitario attorno al nostro paese. Se quindi i terroristi arrivano in Italia gli altri paesi europei possono pensare a proteggere i loro confini con l’Italia, cosa già avvenuta in passato con la sospensione di Schengen da parte di Francia Germania e Austria. Attenzione quindi a non far sconfinare la propaganda nell’autolesionismo».

C’è chi sostiene che vi sia stata una falla nell’intelligence di Francia e Belgio. I servizi italiani sono stati e sono garanzia di sicurezza a prescindere dai governi in carica. Tu che ne hai avuto la delega cosa diresti a un italiano oggi, al di là del rischio obiettivo inevitabile, continuiamo a essere sicuri come lo siamo stati in questi anni?
«L’Italia ha superato due momenti drammatici, è l’unico paese ad aver sconfitto un terrorismo interno senza dover ricorrere a leggi eccezionali, con gli strumenti delle democrazie, come diceva giustamente Sandro Pertini. Questo perché anche in anni difficili come i 70 e 80 si è pensato che la lotta al terrorismo, pur dentro una dialettica politica durissima, fosse un punto di unità di tenuta del paese. In quegli anni e anche tra il 2013 e il 2018 ha funzionato una grande azione di collaborazione tra le forze di polizia, l’intelligence e la magistratura italiana. Se l’Italia ha passato in sicurezza i 5 anni più difficili nella storia del mondo per quanto riguarda il terrorismo internazionale non lo si deve a un colpo di fortuna ma a quella collaborazione, che io considererei un patrimonio del paese. Un giornale israeliano importante e particolarmente patriottico ha scritto “il fallimento dell’intelligence e delle forze armate israeliane”. Israele per 11 mesi è stato un paese drammaticamente diviso al suo interno, quella instabilità permanente e politica ha travolto il sistema. Teniamo quindi altissimo il dibattito politico, anche lo scontro, ma non buttiamo mai il bambino con l’acqua sporca, stiamo attenti a non distruggere i soggetti che hanno costruito questa unità forte contro il terrorismo e sono stati anche il braccio operativo e intelligente di quest’azione di prevenzione e di contrasto».