Il dileggio di Nicola Gratteri al governo dice in controluce quanto alto sia il prezzo politico di una strategia riformatrice del tipo «vorrei, ma non oso», qual è quella praticata in questo anno e mezzo di legislatura. Il guardasigilli ha appena varato i test per l’accesso alla toga, una misura bandiera che nessun impatto concreto avrà nel migliorare la giustizia. Allo stesso tempo, cedendo alle pressioni della magistratura associata, ha rinunciato alle cosiddette pagelle, cioè a una valutazione di merito sui provvedimenti di pm e giudici, la sola che potrebbe introdurre una qualche forma di responsabilità in un sistema che si percepisce legibus solutus.
E il procuratore di Napoli, anziché ringraziare, attacca i test, suggerendo di estendere quelli dell’alcol e della cocaina ai rappresentanti del governo. È stato appena nominato al vertice di una delle più importanti istituzioni giudiziarie del Paese e già parla con il piglio di un antipotere. Oggi censura i ministri per una misura che pure esiste in tutti i sistemi giudiziari d’Europa, ieri bacchetta il rettore di Napoli, che ha osato accogliere un incontro tra gli studenti e Geolier, l’altro ieri se la prende con il Ponte sullo Stretto, discettando dall’alto di un podio morale che i media gli riconoscono.
Nessuno dei giornalisti, che gli alzano vicendevolmente la palla, lo interrogherà sui governatori, sindaci, uomini delle istituzioni e delle professioni che in Calabria ha indagato, arrestato, dimissionato e portato a giudizio per poi vederli assolvere dopo anni, con una percentuale di innocenti processati che, per le sue principali inchieste, supera i due terzi. Meno che mai gli chiederà conto il governo, che ha rinunciato a introdurre una reale responsabilità professionale – quella civile è inesistente, quella disciplinare è una farsa – per impedire che i magistrati possano scalare i vertici a colpi di flop giudiziari. Perché, al netto delle migliori intenzioni del guardasigilli, sulla giustizia il bilancio di un terzo di legislatura per la maggioranza di destra-centro è molto al di sotto della sufficienza.
Come documenta Lorenzo Zilletti nella nostra inchiesta all’interno, la coalizione dei «garantisti» ha fin qui confermato la vergogna dell’ergastolo ostativo, introdotto una miriade di reati e inasprito una parte rilevante di quelli già esistenti, rafforzato la legislazione antimafia, e da ultimo tentato di far approvare alcuni benemeriti cambiamenti che però galleggiano ancora in Parlamento. Il riferimento è all’interrogatorio preventivo e al tribunale collegiale per l’adozione delle misure cautelari, all’abolizione dell’abuso d’ufficio e alla tipizzazione del traffico di influenze, all’inappellabilità parziale da parte del pm delle sentenze di assoluzione, ai timidi limiti introdotti all’abnorme uso delle intercettazioni. Aggiungi a questo che la vera riforma di sistema, quella sulla separazione delle carriere e sul Csm, ancorché dichiarata come prioritaria, è stata già messa temporalmente in coda. Nonostante il governo abbia annunciato un disegno di legge postpasquale, l’iter del testo costituzionale già presente in Parlamento è stato azzoppato.
C’è da chiedersi come una maggioranza che si arrende ai veti sulle pagelle possa spuntarla sulle carriere. Tra chi lo ha conosciuto in tempi in cui si presentava come un bastione del diritto penale liberale, il credito di fiducia di cui gode il guardasigilli è ridotto al lumicino. Ci vorrebbe uno scatto di reni e un coraggio che non si vedono, mentre cresce la sensazione che la maggioranza di destra-centro non sia immune alle paure e alle contiguità della sinistra giudiziaria che l’ha preceduta per anni a Palazzo. Il caso Bari ne è un esempio eloquente: l’uso spregiudicato dell’Antimafia per ribaltare l’egemonia progressista in Puglia ha come prezzo la subalternità della politica alle frange più politicizzate della magistratura e della burocrazia. Le stesse che si coalizzano contro ogni tentativo concreto di riformare il sistema.
Dall’ergastolo alla resistenza passiva, una vera stretta
È l’ossessione del governo Meloni, sin dal primo vagito: il provvedimento passato alla “storia” come decreto Rave, contiene anche la risposta alla Consulta sulla concedibilità dei benefici penitenziari ai detenuti cd. ostativi (non solo ergastolani). Benché la legge di conversione abbia rimediato a qualche obbrobrio (cancellando la parte della cd. leggespazzacorrotti che inseriva i delitti contro la pubblica amministrazione tra le ostatività), il risultato complessivo è desolante: se legati da nesso teleologico, vengono inghiottiti nell’ostatività anche reati “comuni” che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; sparisce la distinzione tra chi vorrebbe collaborare ma non può e chi potrebbe collaborare ma non vuole; si rende più difficile la procedura di accesso ai benefici. La tenace difesa del 41 bis e la proposta di punire con l’inedito reato di rivolta in carcere perfino la resistenza passiva, confermano il giudizio iniziale.
Più pene più aggravanti un sostanziale inasprimento
L’ossessione manettara si disvela anche nella iperproduzione di nuove fattispecie criminose, alcune già vigenti; altre in fase di approvazione. E nel continuo incremento delle pene già esistenti, direttamente o prevedendo nuove aggravanti. In questo, il governo Meloni porta allo zenit la politica securitaria già praticata da precedenti e diverse maggioranze. Agli occhi di vasta parte dell’elettorato, introdurre un reato equivale ad aver debellato il fenomeno che si intende contrastare. In più, costa zero. Via, dunque, con l’omicidio nautico; la detenzione e diffusione di istruzioni per la preparazione di esplosivi; truffe agli anziani; reato universale di gestazione per altri; aggravanti speciali per l’incendio boschivo; nuovo reato di occupazione arbitraria di immobili; Daspo urbano anche per i denunciati per delitti contro il patrimonio; incremento di pena per i reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale, ecc., ecc., ecc. Con una battuta, più che riflettere una politica criminale quest’attività normativa assomiglia a un gigantesco Rave-party.
Interrogatorio e collegio due garanzie ancora in fieri
Il progetto di riforma, approvato dal Senato, attende ancora il voto della Camera. Lo spirito appare sinceramente garantista: sensato che si interroghi l’indagato prima di privarlo della libertà personale e che a decidere sulla misura carceraria sia un collegio di giudici. Se definitivamente adottata, la novità troverà però attuazione soltanto dopo due anni dalla promulgazione ed è comunque circoscritta all’ ipotesi di una richiesta di custodia in carcere e per reati di minore allarme sociale (resiste, anche nelle iniziative sorrette dai migliori intendimenti, la logica securitaria dei doppi e tripli binari). Per valutarne la bontà, occorrerà verificare se la collegialità delle decisioni non sia una finzione, come purtroppo già oggi accade frequentemente per i giudizi d’impugnazione; tanto quelli dei tribunali del riesame, quanto quelli chiamati a confermare o annullare le sentenze emesse nei gradi precedenti. E comprendere quale sia il destino, in termini di utilizzabilità successiva, delle dichiarazioni rese dall’indagato o dell’esercizio del diritto al silenzio.
Intervento necessario per evitare gli abusi
L’ intervento sulle due fattispecie è ancora in itinere, essendosi per adesso pronunciato soltanto il Senato. Della cancellazione (più che opinabile sul piano teorico) dell’abuso d’ufficio, porta la responsabilità l’ostinazione con cui la giurisprudenza ha interpretato il significato dell’espressione “violazione di legge”. Norme generalissime di comportamento e perfino l’art. 97 della Costituzione hanno continuato a far da base a molte incriminazioni e condanne, anche dopo che -reiteramente- il legislatore era intervenuto a modificare il testo delll’art. 323 c.p. Si perde quello che nella tradizione liberale doveva essere un baluardo contro i soprusi della pubblica autorità, per la smania di sconfinamento soprattutto di molti pubblici ministeri in territori riservati all’esercizio di discrezionalità amministrativa. Quanto al traffico di influenze illecite, è difficile piangere per la riscrittura in termini restrittivi di una delle fattispecie di reato più indeterminate e flou che siano mai uscite dalla penna dei precedenti legislatori.
Giusto limite al potere di chi accusa: è garantismo
Di garantismo timido, potrebbe parlarsi per la proposta governativa di abrogare il potere di appello del pubblico ministero contro le assoluzioni dai reati a citazione diretta (quelli, cioè, di minor allarme sociale). Le ragioni che giustificano l’amputazione dell’appello dell’accusa (cui resta sempre il potere di ricorrere in cassazione) valgono a prescindere dal tipo di reato per cui si è processato l’imputato. Esse risiedono nella garanzia, assicurata da norme sovranazionali, per cui ogni condannato ha diritto che l’accertamento della sua colpevolezza sia riesaminato nel merito da un tribunale di seconda istanza. Oggi l’assolto in primo grado, se condannato in appello a seguito d’impugnazione del PM, è ingiustificatamente privo di questa garanzia: potrà, infatti, soltanto ricorrere in cassazione per motivi di legittimità e non di merito. Resiste, anche in questa proposta di Nordio, l’assurdo presupposto che le garanzie debbano diminuire col crescere della gravità del reato.
Invece di frenarle il governo le ha estese
Dopo aver proclamato che sarebbe intervenuto per limitare l’uso delle intercettazioni, il ministro Nordio ha dovuto digerire l’intervento con cui il governo Meloni ha esteso ulteriormente il potere di usare questo strumento investigativo (trojan incluso) quando si indaghi per l’ipotesi di associazione mafiosa e reati connessi, nonché per reati comuni ma posti in essere con modalità mafiose. Si afferma così per via legislativa ciò che la Cassazione aveva escluso in sede giurisprudenziale: chi è accusato di un reato comune aggravato dal metodo mafioso potrà essere trattato nello stesso modo di chi è accusato di un reato di mafia. A questo provvedimento si è aggiunto quello varato dal Parlamento per porre freni al processo mediatico, vietando ai giornalisti la pubblicazione per intero o per estratto delle ordinanze di custodia cautelare e lasciando salva la possibilità di descriverne il contenuto per riassunto. La norma, ispirata da un giusto spirito, non è tuttavia priva di controindicazioni.
Valutazioni a campione un’occasione sciupata
Il decreto legislativo che contiene anche le norme su quelle che vengono definite le “pagelle” riguarda regole che dovrebbero presiedere alle valutazioni di professionalità necessarie per l’avanzamento in carriera. E che dovrebbero costituire utile base anche nel momento in cui il CSM attribuisce gli incarichi direttivi. Il testo compie un passo indietro rispetto a quanto il governo Draghi aveva azzardato, scatenando la protesta di ANM culminata addirittura in uno sciopero. Pietra dello scandalo era aver messo da parte gli automatismi e aver creato un “fascicolo delle performance”, in cui sarebbero dovuti confluire tutti i provvedimenti adottati dal magistrato. Il governo Meloni pare aver assecondato i desiderata di ANM, garantendo che i controlli sull’attività dei magistrati (non solo la “tenuta” dei provvedimenti, ma la produttività, i tempi delle decisioni, il disbrigo degli arretrati, ecc.) saranno effettuati a campione. Questa tipologia di controllo è per sua natura poco efficace e scarsamente rispondente al reale profilo del valutato. Si è così frustrata anche la possibilità di ricorrere a valutazioni statistiche, di per sé non onnicomprensive ms più idonee.
Misura doverosa ma perché solo all’accesso?
A NM è già in riv o l t a e g r i d a all’incostituzionalità. Lo stesso decreto legislativo di riforma dell’ordinamento giudiziario introduce per la prima volta i test psicoattitudinali per i magistrati, al momento del loro reclutamento, nel quadro delle prove orali di concorso. L’individuazione deitest sarà opera del CSM, mentre la formulazione del giudizio finale compete alla commissione esaminatrice. È difficile comprendere, data la genericità della previsione, se la novità riuscirà a garantire una migliore qualità delle decisioni giuridiche. Qualche perplessità nasce dal fatto che i test siano previsti soltanto in ingresso e non anche al momento delle verifiche periodiche di professionalità. Certo non sembra così scandaloso e oltraggioso nei riguardi della magistratura che l’Italia si doti di uno strumento di cui si avvalgono da tempo altri paesi dell’Europa occidentale.
Magistrati legislatori una partita persa
Un bel rinvio al 2026 segna il dibattito attorno alla questione dei magistrati distaccati nei ministeri. Eppure la vicenda investe lo stesso principio della separazione dei poteri. È anomalo che da una parte si reclami autonomia e indipendenza della magistratura e dall’altra si consenta che una quota di appartenenti all’ordine giudiziario vada ad occupare gangli decisivi nell’ambito del potere esecutivo. Restando dalle parti di via Arenula, Capo di gabinetto, Capo dell’ufficio legislativo, vertici di DOG, DAP e DAG sono tutti magistrati. E quegli stessi uffici vedono magistrati tra i loro componenti. Quando si lamenta, e giustamente, la perdita di centralità del Parlamento, bisognerebbe prima interrogarsi su chi sia il legislatore reale. Anche i più ingenui scoprirebbero che in molti casi è la magistratura che interpreta le leggi che un minuto prima ha finito di scrivere.
Progetto a maggio: è una corsa a ostacoli
L a prossima legge sulla separazione delle carriere dei magistrati (giudicante e requirente) «sarà presentata entro il mese di aprile, al massimo a maggio – ha detto ieri il guardasigilli Nordio – e sarà consustanziale alla riforma del Consiglio superiore della magistratura per ovvie ragioni, quindi ci saranno due Csm separati». Si tratterà di “una riforma radicale per la quale occorre cambiare la Costituzione e l’iter sarà ovviamente più lungo”. Non solo. “Anche per quanto riguarda la legge Severino – ha aggiunto il Guardasigilli – noi riteniamo che sia necessaria una rimessa a punto. Non è all’ordine del giorno ma sicuramente fa parte del nostro interesse». Non si può che condividere e insieme dubitare. Perché la separazione delle carriere si fa con una legge costituzionale, che viene posposta all’approvazione del Premierato e che rappresenta per il governo una prova molto difficile. Non solo per le resistenze nella magistratura, associata e non solo (anche la Presidente della Cassazione Cassano ha espresso sul tema le sue perplessità), ma per le divisioni che esistono anche nella maggioranza. Non resta che dire: se son rose fioriranno.