Certo non è stato un buon esordio. Inaugurare l’attività di governo con la proposta di innalzare il tetto del contante circolante a 10.000 euro ha concesso praterie alle opposizioni e a quanti guardano con istintiva diffidenza al primo gabinetto di destra della Repubblica. Ma insomma la frittata è fatta e tanto vale provare ad assaggiarla. Si dice che si raggiungerà probabilmente un’intesa tra le forze di governo sui 5.000 euro, la media ponderale europea oscilla intorno ai 3.000 euro; a occhio e croce la Commissione di Bruxelles avrà poco da ridire. Per comprendere a fondo la questione vanno evitate inutili tecnicalità e messi da parte facili moralismi.

E’ chiaro che la stragrande maggioranza degli italiani non circola con 5.000 euro in tasca e neppure con 3.000 e sarebbe ipocrita negare che la misura tende inevitabilmente a favorire la destinazione del denaro verso i micro-evasori (professionisti, artigiani e negozianti in primo luogo) e da lì verso il consumo. Sono due passaggi distinti. Se i consumatori pagano in nero – e ancora oggi lo fanno massicciamente soprattutto nelle transazioni con gli artigiani: dal meccanico all’idraulico, dal falegname al piccolo emporio – è evidente che, a fine giornata, gli incassi debbano avere una qualche destinazione. Escluso il mattone, per gli evidenti rischi che presenta, resta la necessità di portare il denaro contante da qualche parte. Una quota consistente confluisce in beni di consumo, spese quotidiane, autosostentamento; da micro-evasore a micro-evasore, spesso; da micro-evasore a conto corrente, con una certa cautela; da micro-evasore al conto corrente di parenti e coniuge, più frequentemente.

Non è raro, anzi, che medici e avvocati, geometri e ragionieri siano risucchiati nel circuito dell’evasione dal fatto che i propri clienti non sono disposti a pagare se non in contanti per non lasciare traccia delle proprie disponibilità economiche. Ed è vertiginoso il giro di auto, case, natanti e beni di lusso che sono da sempre intestati a società di comodo proprio per dissimulare ricchezze provenienti dall’evasione fiscale perpetrata per anni. Insomma, nessuno si illuda e nessuno si è mai illuso che impedendo la circolazione del contante d’incanto scompaia l’evasione fiscale. Tutti sanno che evasione ed elusione (soprattutto) riguardano in primo luogo l’Iva e non le imposte dirette, si annidano nelle frodi carosello, rimpinguano le casse in nero delle imprese commerciali extraeuropee (cinesi in primo luogo) presenti sul territorio nazionale. Sono cose che il premier conosce bene, tant’è che in piena campagna elettorale aveva proposto che le società extracomunitarie di nuovo conio fossero tenute a versare una fideiussione per garantire il pagamento dell’Iva prima di dissolversi come neve al sole. Miliardi di euro spariscono ogni anno e questa volta il contante c’entra poco o nulla.

Hanno tutti i registratori di cassa le imprese pirata cinesi, ma poi scompaiono non pagando l’Iva sulle transazioni; un danno enorme per l’Erario e un vulnus grave alla stessa sovranità nazionale. Chissà se il presidente Meloni intende bilanciare la proposta sul contante, a trazione leghista, con l’approvazione della sua idea sulla polizza che colpirebbe in primo luogo proprio le migliaia di imprese cinesi che operano illecitamente in Italia. Poi c’è la seconda parte del discorso. Ogni giorno un fiume di denaro in contanti attraversa il paese con lo spaccio delle sostanze stupefacenti. I consumatori certo non pagano le dosi con il bancomat e milioni di euro confluiscono nelle reti del traffico di droga seguendo canali che finora nessuno ha mai scoperto. La droga la si sequestra a tonnellate (lasciamo perdere in che modo), ma il denaro nessuno l’ha mai visto dove finisca. Si dovrà attendere qualche coraggioso e determinato procuratore della Repubblica per capirne di più. Si spera.

Nell’attesa il narcodenaro corre a dispetto di qualunque tetto al contante e certo nessuno sta a pensare che si possa parcellizzare questo fiume di liquidità in micro rivoli da 5.000 euro cadauno. Il provento delle droghe finisce altrove, probabilmente all’estero sia per pagare le partite importate sia per riciclare il denaro con minori rischi che in Italia. In realtà, per il riciclaggio, è il resto del mondo un gigantesco paradiso fiscale. A costoro non importa risparmiare sulle tasse, ma pulire il denaro e fare affari al riparo da ingombranti pericoli e la stessa cosa vale per corrotti e corruttori: le mazzette importanti non si pagano certo in Italia e men che meno in contanti.

Per chiudere. La circolazione del contante ha dei limiti è vero, ma essi hanno poco a che vedere con la lotta all’evasione e al riciclaggio. Far circolare il denaro comporta comunque la possibilità di una tassazione; certo l’ingiusta tassazione indiretta (Iva) in luogo della più giusta tassazione diretta e progressiva (Irpef), ma meglio di niente, visto i proclami decennali sul punto rimasti con pochi risultati. Nel fronte opposto, trova legittimazione e spazio l’ideologia populista e demagogica della sorveglianza generalizzata, l’opzione panottica degli inquisitori e dei moralisti che sotto sotto vorrebbero un paese assoggettato a controlli a setaccio fine e a maglie strette, per spiare in poche parole la vita dei singoli; perché alla fine questo succede con le carte elettroniche di pagamento.

Se servisse davvero, si potrebbe anche ragionare sui costi immani di questi protocolli sulla privacy dei cittadini e fare scelte consapevoli, ma siccome la struttura economica e produttiva del paese è pulviscolare e sfugge a ogni regola, tanto vale non ostacolare oltre misura la circolazione del denaro per poterlo intercettare e sanzionare se le sue fonti sono illegali e, comunque, tassarlo quando si indirizza su beni di consumo; beni che (a loro volta) diventano indici della capacità reddituale e appetibili per la fiscalità.