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Tintarella da smartphone: la solitudine nel bagliore degli schermi dove tutto è effimero

Al mondo nessuno è candida come te. Così cantava Mina in Tintarella di Luna, uno dei suoi successi dei “favolosi” anni ’60: una indovinata canzoncina che cullava i sogni delle adolescenti dell’Italia del boom. E a distanza di quasi settant’anni da quel motivetto si può dire sia rimasta intatta la necessità dei giovani di sognare, di proiettarsi in una dimensione ideale nella quale la loro immagine possa distinguersi da quella della massa, per sentirsi unici.
Un capitale effimero
Solo non è più la pallida Luna a illuminare i loro volti ma gli schermi lattiginosi degli smartphone. Quella che dobbiamo immaginare è una lunghissima passerella che si snoda nella rete, passando tra continenti e paesi, città e montagne, di telefono in telefono. Una passerella alla quale ognuno accede tentando di emanciparsi dalla condizione di spettatore, con l’obiettivo di accumulare visualizzazioni: la valuta di un capitale effimero, quanto mai volatile e impalpabile. Eppure, l’unico al quale milioni di giovani oggi sembrano essere interessati. Qualche anno fa, quando ancora si tessevano le lodi della rete, magnificandone le virtù, se ne citava spesso una in particolare, che oggi appare come la più sbagliata di tutte. Si diceva infatti che la rete non perdona perché non dimentica nulla.
Nulla dura più di un attimo
Se è mai stato vero, oggi di certo non è più così: la quantità di informazioni è sfuggita a ogni possibile controllo. Qualsiasi contenuto non dura più di un attimo: sì, tutto resta archiviato, ma è sfiorito il concetto stesso di memoria: perché non si ha più tempo per sorbire neanche il presente, figuriamoci andare a consultare il passato prossimo o quello remoto. I nati a cavallo di questa rivoluzione, che ormai è già tardi per chiamare ancora nativi digitali, si sono formati con questa consapevolezza: che l’immagine che riescono a trasmettere attraverso i social non è solo tutto ciò che sono ma anche tutto ciò che potranno mai essere. E che quella immagine si rinnova e muore in un arco temporale risicatissimo, rapido oltre il limite della spietatezza.
L’immagine è tutto?
Chi ce la fa, chi riesce in qualche modo a cavalcare un’onda, vive afflitto dall’ansia di cadere e scomparire improvvisamente, sapendo che la passerella è piena di altri pronti a scalzarli e che una seconda possibilità è concessa molto raramente. Chi invece non riesce rimane sospeso in un limbo, afflitto dalla condizione di spettatore cui è mancato un corpo sufficientemente attraente, una faccia abbastanza tosta o il millanto di uno pseudotalento. E chiaramente quelli che non riescono sono i più. Si potrebbe dire che si tratta, né più né meno, della vecchia legge della jungla che si esprime per altri mezzi e in rinnovati contesti, come sempre è avvenuto. Ma non è proprio così. Perché nelle regole della jungla non è mai mancato uno scopo conservativo, magari durissimo. E invece nelle spire delle stories e dei reels tutto si esaurisce in sé stesso e finanche la ricchezza che vi si genera assume il carattere della futilità, perché sempre di mole relativa, insufficiente, frustrata dal demone continuo del paragone. La capacità di discernimento, l’autoconsapevolezza, la dignità del proprio corpo e delle proprie idee. Tutto questo è aggrappato a un piano inclinato sostenuto da volti sempre più stanchi, pallidi, abbagliati e tristi. Una tintarella color latte.
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