Le due sentenze del Consiglio di Stato
Toghe allo sbando, perché Pietro Curzio e Margherita Cassano sono stati ‘cacciati’ dalla Cassazione

Come è ormai noto, il Consiglio di Stato, con due sentenze pubblicate entrambe il 14 gennaio, ha annullato le delibere con cui il Csm aveva nominato il primo Presidente della Corte di Cassazione ed il Presidente aggiunto dello stesso organo. In particolare, il Consiglio di Stato ha rilevato la mancata adeguata considerazione dei titoli specifici dei candidati, pur riconoscendo l’ampio margine di discrezionalità spettante all’organo di autogoverno della magistratura. Quale la reazione delle toghe? Si può leggere sul sito “Giustizia Insieme”, che fa capo ad una delle correnti della magistratura associata.
In particolare, sarebbe, alla stregua delle decisioni citate, «una clausola di stile il riconoscimento al Csm della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”, a dispetto del fatto che in presenza di situazioni di eccellenza il giudizio diventa inevitabilmente sottile e raffinato e veramente difficile da sindacare. E diventa altresì difficile comprendere quali sarebbero i margini entro i quali potrebbe muoversi la valutazione di merito, se tutto deve essere necessariamente predeterminato in maniera assolutamente vincolante».
Giudici, quindi, che criticano altri giudici. Ma la reazione è un po’ troppo semplicistica. La lettura della motivazione delle due decisioni consente di sintetizzare le ragioni dell’annullamento in una domanda: vi siete dati delle regole, perché non rispettate le vostre stesse regole?
Per meglio comprendere di cosa si tratta, è utile accennare al Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria. Il Csm con delibera del 28 luglio 2015 ha approvato le norme alle quali si sarebbe attenuto, in futuro, per l’attribuzione degli incarichi direttivi e semi direttivi. Come si legge nella relazione di accompagnamento, con tale delibera si intendeva «provvedere alla riscrittura della circolare per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi nella prospettiva di garantire le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni consiliari». Quale uso quel Csm abbia fatto di tali criteri di trasparenza e di certezza lo ha rivelato, con dovizia di particolari, lo scandalo Palamara. Ma il nuovo Csm? Quello che Mattarella non ha sciolto, nonostante diversi membri fossero stati costretti alle dimissioni perché impigliati nello scandalo Palamara? Quello che ha visto sostituiti i componenti dimissionari all’esito di una campagna elettorale combattuta al grido di “pulizia, pulizia!”, che ha determinato un ribaltamento della vecchia maggioranza? Secondo il Consiglio di Stato ha continuato a non rispettare le proprie regole.
In particolare, osserva il Consiglio di Stato, la delibera adottata dal Csm il 28 luglio 2015 «pone criteri per un futuro e coerente esercizio della discrezionalità valutativa dell’organo di governo autonomo: sicché un successivo contrasto con le sue previsioni non concretizza una violazione di precetti, ma un discostamento da quei criteri che, per la pari ordinazione dell’atto e il carattere astratto del primo, va di volta in volta giustificato e seriamente motivato». Tale seria motivazione è stata mancante, sempre secondo il Consiglio di Stato, perché nonostante il testo unico sulla dirigenza contempli il ricorso ad indicatori specifici di attitudine, connessi alle precedenti esperienze, le delibere non avrebbero dato conto dei motivi per i quali sarebbe stato scavalcato un altro candidato, cui erano riferibili indicatori specifici di maggiore rilievo. In questa omissione il Consiglio di Stato individua il rischio di «un uso indebito e distorto di quel potere valutativo, vale a dire ricorre un eventuale vizio di eccesso di potere».
Si tratta, inutile nasconderlo, di un giudizio particolarmente severo, che colpisce l’organo che ha a capo il Presidente della Repubblica. È una delle ipocrisie più fastidiose, sul piano istituzionale, quella degli organi che fanno finta di darsi delle regole, ma che poi sono i primi a non rispettarle. Di fronte ad una decisione del Consiglio di Stato di tale portata sarebbe stato lecito attendersi da parte dei componenti del Csm un momento di riflessione per ripensare la propria condotta. Ma così non è. La Commissione per gli incarichi direttivi si è già riunita di sabato, per deliberare la conferma della scelta del Primo Presidente e si annuncia per mercoledì una seduta plenaria del Csm per confermare definitivamente la nomina. Tempi da record assoluto, dunque, che rendono ancora più evidente la intollerabilità, per molte nomine, del passaggio di diversi mesi e, talora, di anni, che sono spesso necessari per portare a termine le negoziazioni tra correnti.
Dunque, una vicenda di portata politico-istituzionale enorme, che avrebbe dovuto indurre ad una riflessione profonda sulla gestione del potere nell’ambito della magistratura, viene degradata a mero inciampo burocratico, che si può superare aggiungendo qualche altra parolina alla delibera, in modo da poter dire che vi è stata una motivazione adeguata. E le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza, che erano alla base della formulazione del Testo Unico per la dirigenza giudiziaria? Sarà per un’altra volta! Tanto è un tipo di illegittimità a cui il Csm ha fatto l’abitudine. Certo è che, di fronte allo spettacolo offerto da quest’organo di rilievo costituzionale, diventa difficile comprendere le ragioni di chi si oppone ad una radicale riforma del sistema di nomina dei componenti del Csm e si limita a proporre modifiche di mera facciata. Diventa così evidente, anche sotto questo profilo, l’importanza dei referendum sulla giustizia. Solo un vasto movimento popolare favorevole ai quesiti referendari potrà incrinare quel patto di solidarietà, esistente tra magistratura e alcune forze politiche, volto a lasciare, a dispetto di tutto, le cose come stanno.
Il livello scadente raggiunto dalla lotta tra correnti è confermato dal falso scoop pubblicato sabato da Repubblica e di evidente provenienza giudiziaria. Si riferisce che il relatore delle decisioni sarebbe approdato, cinque anni fa, al Consiglio di Stato, essendo risultato primo a seguito di un concorso nella cui commissione era presente anche il magistrato, il cui ricorso è stato accolto. All’evidente assenza di qualsiasi ragione di astensione, non stabilendosi alcun rapporto tra candidato e commissario, una volta superato definitivamente e da tempo il momento dell’esame, occorre aggiungere che si fa finta di ignorare che una decisione di questa portata non può non aver visto il consapevole coinvolgimento di tutti i componenti del Collegio, a cominciare dal presidente.
Un’ultima notazione. È davvero singolare la disinvoltura con cui in magistratura si utilizzano le regole per l’attribuzione degli incarichi, specie se rapportata al numero delle inchieste che vedono sul banco degli imputati, tra gli altri, pubblici amministratori e professori universitari, appena vi è un sospetto, anche larvato, di favoritismi. Ed è impressionante come, in questi casi, la magistratura si erga a paladina inflessibile di regole, di cui capita anche che non comprenda neppure il senso.
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